Siamo alle prese con la grande emergenza sanitaria determinata dal diffondersi del Codiv-19, ormai identificato da tutti con il nome coronavirus. La sua propagazione, la cui origine risalirebbe – secondo gli esperti – al mese di novembre dello scorso anno all’interno del mercato ittico di Whuan, in Cina, oggi non ha più confini e riguarda ormai tutti i continenti, con punte di diffusione in Cina e in Europa, in particolare nel nostro Paese.

La situazione epidemiologica è preoccupante non solo per gli effetti di una malattia virale contro la quale il nostro organismo non ha anticorpi e che provoca serie conseguenze per la salute dei contagiati, in particolare per soggetti più deboli, con un sistema immunitario già compromesso; ma anche per la condizione di un sistema sanitario che fa fatica a garantire la necessaria assistenza a un numero di pazienti che cresce vertiginosamente col passare delle ore. Le autorità competenti del nostro Paese hanno attivato da giorni misure drastiche per limitare il contagio il più possibile, prescrivendo nelle aree identificate come focolaio della presenza del virus un certo numero di restrizioni nei confronti degli abitanti. Restrizioni che col passare delle ore stanno estendendosi a tutto il territorio nazionale, in considerazione dell'espansione dell'epidemia.

Un contesto di questo tipo – chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado, divieti o limitazioni della mobilità, interruzione di molte funzioni giudiziarie, chiusura di luoghi particolarmente a “rischio di socialità” e molto altro – qualcuno probabilmente lo può paragonare a un altro periodo storico molto difficile: il 1943, quando il nostro Paese dovette fronteggiare i bombardamenti della guerra. Non è un paragone ardito quella tra le due epoche. Oggi, l’emergenza sanitaria, così come fu 77 anni fa durante il conflitto mondiale, sta determinando effetti sconvolgenti che potranno portare a conseguenze altrettanto nefaste sul piano sociale, economico, oltreché naturalmente sulla sicurezza delle persone. 

Se l’attenzione al coronavirus è massima, tuttavia non vanno sottaciute altre emergenze che attualmente sconvolgono il nostro pianeta. La prima è quella climatica. Sebbene dichiarata con atto politico dalla Commissione europea nel novembre scorso, resta del tutto irrisolta e possiamo empiricamente misurarla guardando quando sta avvenendo nel continente antartico, che proprio in questi giorni sta registrando le temperature più alte mai misurate a quelle latitudini. La media dei 20 gradi del Polo Sud sta progressivamente sciogliendo la coltre di ghiaccio formatasi 34 milioni di anni fa e che copriva il 98% della superficie. Lo scioglimento dei ghiacci sta innalzando il livello del mare e sta contribuendo a modificare strutturalmente le condizioni meteorologiche in tutto il Pianeta. 

Che c’entra il surriscaldamento della terra con il coronavirus? Ci sono almeno due riflessioni che collegano le emergenze. Da un lato verrebbe da chiedersi se lo sviluppo di virus finora sconosciuti all’uomo, per i quali non ci sono anticorpi, non siano proprio il frutto di un cambiamento climatico che sta agevolando il proliferarsi di nuovi organismi. È noto come virus e batteri siano i primi organismi capaci di adattarsi ai cambiamenti climatici a differenza di ogni altro essere vivente del pianeta. L’altra riflessione è conseguente alla diffusione dell’epidemia attuale. Proprio nel luogo in cui si è sviluppata la crisi sanitaria, in Cina, si è registrato un abbassamento delle emissioni inquinanti (100 milioni di tonnellate metriche di anidride carbonica) in conseguenza al blocco di ogni tipo di attività produttiva. Il virus insomma, ha agito come anticorpo del Pianeta, per contrastare la malattia inquinante prodotta dall’uomo.

La seconda emergenza è quella umanitaria. Un’emergenza che oggi si sta consumando al confine tra la Turchia e la Grecia, con migliaia di profughi che fuggono da una guerra civile che da ben 9 anni rende disperate le condizioni della popolazione della Siria e che oggi si aggrava a causa dell’intervento turco nelle regioni del nord. Il flusso migratorio dal medio-oriente porta le immagini drammatiche dei respingimenti, delle violenze della polizia nei confronti di uomini, donne, bambini in cerca di salvezza; le stesse alle quali abbiamo assistito nei mesi precedenti, nel Mediterraneo, al largo della Libia. Anche l’immobilismo della comunità internazionale, in particolare dell’Europa, è lo stesso. Un immobilismo che ha favorito le pulsioni sovraniste di alcuni schieramenti politici e alimentato un sentimento razzista sempre più diffuso nella società.

Anche l’emergenza umanitaria ha punti di connessione con l’emergenza coronavirus. In particolare, se osserviamo la reazione collettiva e tanta parte della narrazione politica: il tema è difendersi da un invasore. Che siano frotte di profughi che fuggono dalla loro condizione per trovare rifugio nel nostro Paese o un agente patogeno che causa un’epidemia incontrollata capace di mettere in ginocchio il sistema sanitario, economico e produttivo nazionale, c’è poca differenza: la clava brandita per reagire alle interferenze è la paura. Poco importa se nel giro di qualche giorno, da essere coloro che chiedevano i porti contro l'invasore straniero, ci ritroviamo ad essere gli untori di Europa e quindi veniamo discriminati, segregati, perché siamo quelli che portano le malattie. Anche in tal senso il virus ci lancia un monito, dimostrando che ogni essere umano è solo e rischia la propria vita se agisce individualmente.

Allora questa drammatica vicenda può darci qualche insegnamento. Sta a noi coglierlo. Avere rispetto per la propria vita significa assumersi responsabilità che non possono essere chiuse nel recinto della propria individualità. Si tratta di responsabilità collettive che rendono chiaro il senso di appartenenza a qualcosa di più grande, che si prende cura di noi. Nei piccoli gesti quotidiani e nelle scelte politiche più generali, ciò che deve prevalere è il senso di reciprocità. Ogni importante crisi porta importanti cambiamenti. Questo è il momento di cambiare, assumendo il valore del bene comune come il patrimonio più grande da difendere.

Giuseppe Massafra, segretario confederale Cgil