Barack Obama ha già cambiato l’America prima ancora di aver iniziato a governarla. È già nella storia prima ancora di averla scritta. La sua piattaforma programmatica è meno minuziosa di quella di Hillary Clinton (da lui sconfitta alle primarie democratiche), il suo curriculum politico è un cantiere con travi nude e calcestruzzo ancora fresco (mentre quello di McCain contiene più reperti del British Museum). Ma tutto ciò non ha importanza per gli americani che, evidentemente, piuttosto che un curriculum hanno scelto un colore, una voce, l’unico carisma in campo.


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Consegnando al senatore afroamericano la guida del Paese, la democrazia e l’economia sino ad oggi più potente del nostro pianeta chiude i conti col passato e lo trasforma in futuro. Entra alla Casa Bianca l’erede spirituale e politico di Martin Luther King, dei segregati coloured del Novecento, degli schiavi nei campi di cotone dell’Ottocento, dei milioni di uomini liberi strappati alle loro terre d’Africa dal Seicento in avanti. E così si chiude un cerchio. La potenza economica degli Stati Uniti (e prima di loro di altre potenze del sistema mondo occidentale, come Gran Bretagna e Olanda) non sarebbe mai diventata quello che è oggi senza l’apporto dei neri afroamericani. E lo stesso debito vale per il sistema democratico che tutto il mondo invidia agli States, visto che non esiste democrazia evoluta senza un’economia evoluta. Adesso che Obama è diventato il 44mo presidente degli Stati Uniti, il debito è pagato, e per questo la storia è scritta prima ancora d’essere fatta.

In questo senso, Obama è un predestinato. L’orgoglio razziale, anzi il senso d’appartenenza a un popolo, si diluiscono però nel Dna meticcio di un figlio del mondo. La nigrizia sbiadisce nel cosmopolitismo, ed è forse questa identità molteplice del candidato la chiave della sua vittoria. Anche questo, insieme all’esaustione politica e sociale dopo otto anni di Bush, spiega il dato eclatante delle affluenze al voto (oltre 131 milioni di persone, oltre il 64% degli aventi diritto, di cui secondo la Fox 61 milioni hanno scelto il senatore dell’Illinois). Un sondaggio della Cnn dice che il 66% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha optato per Obama: chiaro segnale che l’America – come sempre – ha voglia di futuro. E che futuro poteva prometterle John McCain?

Gli Usa, però, si aspettano molto dal loro prossimo presidente. Qualche giorno fa, nel suo endorsement per Obama, il settimanale britannico The Economist elencava tutti i compiti durissimi che l’attendono: “Rimettere in piedi l’economia dell’America e la sua reputazione internazionale. La crisi finanziaria è lontana dall’essere conclusa. Gli Stati Uniti sono al principio di una recessione dolorosa. (...) Cinquanta milioni di americani hanno una copertura sanitaria ridicola. All’estero, sebbene i soldati stiamo morendo in due paesi, il modo torpido in cui George W. Bush ha condotto la sua guerra al terrore ha fatto dell’America un paese assai meno temuto dai suoi nemici e assai meno ammirato dai suoi alleati di quanto non fosse un tempo”.

Dal crac di Wall Street al terrore dei risparmiatori, dalla crisi dell’economia reale che brucia posti di lavoro e salari all’insolvenza manifesta del welfare e del sistema sanitario americano, per chiudere coi nodi scorsoi della politica internazionale: c’è proprio da fare gli auguri a Mr. Obama per i mesi e gli anni che lo attendono. Nessuno sa se si dimostrerà all’altezza, ma una cosa è certa: governerà meglio di Bush, e questo è già molto.

Il mondo intero in queste ore acclama il nuovo presidente nordamericano, e molti di noi lo festeggiano come se fosse il nostro nuovo leader. Ma Obama, sicuramente al principio e probabilmente per tutto il prosieguo del suo mandato, penserà soprattutto al proprio Paese e al suo popolo. Proprio per i motivi che abbiamo elencato sopra, sarà un presidente degli americani molto più di quanto non lo sia stato Bush. Forte di un Congresso saldamente democratico, riformerà le politiche sociali ed economiche. Come ha spiegato Francis Fukuyama in un’intervista al Corriere della Sera, il nuovo presidente “ridefinirà la politica americana, inaugurando una nuova era. Nei primi 100 giorni potrebbe varare un programma simile al New Deal di Roosevelt. Siamo alla vigilia di una svolta storica ed epocale che porterà ad un grande riallineamento della politica americana nelle prossime generazioni”. E gli Stati Uniti si incammineranno “verso un'economia più ‘socialista’ in senso europeo, dove l'intervento dello stato sarà preponderante rispetto al passato”.

Sul piano della politica internazionale, invece, leader di un nazione in declino egemonico, il cui debito pubblico è posseduto in gran parte dalla Cina, Obama è di nuovo l’uomo giusto al posto giusto. All’America adesso servono dialogo e diplomazia. La diplomazia è l’arma con cui si vince in un mondo multipolare. Esercito e bombe sono gli strumenti d’affermazione di un impero: ma gli Stati Uniti non sono più un impero. Lo dimostra il fatto che l’esercito e le bombe di Bush non hanno fatto vincere la politica estera di Bush. Leader di un paese a corto di pallottole, Obama potrà attingere alle idee e alle speranze che ha saputo coltivare così bene finora.

E si riveleranno forse profetiche, nei prossimi anni, le parole spese da Nelson Mandela nelle sue felicitazioni odierne: 'Applaudiamo il tuo impegno per la pace e la sicurezza nel mondo, e siamo certi che uno degli obiettivi principali della tua presidenza sarà di combattere la povertà e le malattie in tutto il mondo' 'La tua vittoria – ha scritto l’ex capo di stato sudafricano al nuovo presidente degli States - dimostra che nessuno deve abbandonare il sogno di tentare di fare di questo mondo un mondo migliore”.