Il Mezzogiorno raccontato nell’ultimo rapporto della Svimez è quello al centro dell’analisi del professor Gianfranco Viesti, docente di economia all’Università di Bari. Per ridurre i divari servono politiche pubbliche, un grande piano di assunzioni negli enti locali e creare occupazione stabile con salario dignitoso.

Gianfranco Viesti, Università di Bari ()

Il rapporto della Svimez presentato due giorni fa racconta di un Mezzogiorno che ha ricominciato ad allontanarsi dal Settentrione.

Il Rapporto è molto buono, ricco e interessante. Mette a fuoco una questione, che non è certo una novità ma che è necessario tenere a mente, la struttura produttiva del Sud è troppo limitata. In particolare nelle produzioni industriali e in alcuni servizi avanzati. Dopo il Covid il Sud è cresciuto molto, allo stesso passo del resto del Paese, grazie soprattutto all'edilizia sostenuta dal superbonus e nell’immediato futuro ci sono buone possibilità che questo settore continui ad avere un buon andamento trainato dagli investimenti infrastrutturali del Pnrr, il punto è che quando manca questa spinta, l'andamento è più debole. Anche, forse soprattutto, perché in questa parte di territorio ci sono meno occupati a buon salario e quindi la domanda interna è più debole.

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Lo dice la Svimez, la ripresa è stata quasi più incisiva che al Nord, ma in settori più deboli, oltre all’edilizia hanno ripreso i servizi a bassa intensità, il turismo, ma esiste una povertà industriale enorme.

È la stessa situazione che c'è da decenni, una delle ragioni di questa desertificazione è che in questo territorio erano presenti quelle industrie che più hanno subito le dinamiche di obsolescenza. È indispensabile, quindi, rafforzare la struttura produttiva nei servizi avanzati delle città e nelle produzioni industriali. E questa struttura produttiva deve poi garantire salari decenti. Bizzarra coincidenza che la pubblicazione del Rapporto della Svimez sia coincisa con l'affossamento del salario minimo da parte del Governo. Tutto quello che è scritto nel Rapporto milita a favore dell'introduzione di un salario minimo in Italia, ciò che salta agli occhi – infatti - è che mentre è ripresa l'occupazione, nel senso che sono aumentati i numeri degli occupati, è aumentata anche la povertà nel Sud: è aumentata la povertà di chi lavora. Quando si analizzano i dati occorre esaminarli non solo dal punto di vista quantitativo ma anche da quello qualitativo. Occorre tenere presente che contiamo come occupati anche persone che lavorano una quantità limitata di tempo o che guadagnano un salario molto modesto, quest’analisi allora ci dice che nelle regioni meridionali c’è molto lavoro precario e molto lavoro a basso salario.

La Svimez sottolinea come il Pnrr potrebbe essere la grande occasione del Sud. Il punto è che pare che non venga sfruttata. A che punto siamo?

Il discorso è molto articolato, complessivamente abbiamo un andamento di spesa ancora modesto, lo attestano sia Banca d'Italia che l'Ufficio Parlamentare di Bilancio. È vero che ci sono tanti progetti a gara e tantissimi progetti già aggiudicati, quindi il 2024 dovrebbe essere l'anno dell'apertura dei cantieri. L’Upb ci dice anche che la velocità dei comuni del Sud nell’avviare i cantieri e svolgere i lavori è più bassa di quella del resto del Paese. Non è una sorpresa, perché i comuni del Sud sono molto più poveri di personale, è un dato che deve allertare ma non va drammatizzato perché le opere dei comuni hanno un ciclo di realizzazione abbastanza breve e quindi è possibile portarli in porto. Piuttosto voglio porre l’attenzione sul caos che si è creato nel Pnrr con le modifiche, non sappiamo praticamente niente perché non esiste un testo ufficiale del nuovo Piano così come concordato con la Commissione europea. Esiste un comunicato del Governo che ci dice le cose nuove che si faranno, ma non esistono dati precisi e indicazioni sui tagli che ci sono stati, quindi non sappiamo esattamente come si sta rimodulando il Pnrr. E non abbiamo la più pallida idea di se e come saranno finanziati con altre risorse i progetti esclusi. Il Governo ha creato una situazione di grandissima incertezza e opacità. Da quello che è possibile capire, le modifiche che sono state apportate rendono più difficile il raggiungimento di quel 40% delle risorse riservate al Sud perché sono stati tolti proprio i progetti particolarmente intensi al Sud e sono stati inseriti quelli che prevedono una spesa al Sud più bassa.

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Ci sono altre due questioni che io vorrei sottoporre alla sua attenzione. La prima l'ha accennata lei, l'estrema fragilità delle amministrazioni locali del Sud che nel corso degli anni sono state particolarmente depauperate di persone.

Analizzando i dati dei comuni italiani, li ho studiati per la Fondazione con il Sud, risulta evidente che la presenza di dipendenti dei comuni al Sud è molto inferiore rispetto al resto del Paese, e che la loro diminuzione negli ultimi 10 anni è stata molto più intensa. Da qui bisogna ripartire e – per fortuna - nell'ultimo periodo si sta cercando di invertire a rotta, ma la strada da recuperare è molto grande. Il problema dell'Italia, diversamente da ciò che si è detto, che ci ne sono troppo pochi dipendenti pubblici, soprattutto al Sud.  E qui spicca l'errore strategico compiuto dal governo Draghi, che avrebbe dovuto rafforzare strutturalmente tutti i comuni italiani prima di scaricare su di loro un carico di investimenti così grande come quello del Pnrr. Spero abbiamo imparato che non si fanno le politiche pubbliche senza una buona amministrazione pubblica. In ogni caso bisogna comunque andare avanti con la realizzazione del Pnrr e delle politiche di coesione con le strutture che ci sono.

L'altro grande tema è quello che riguarda da un lato la caduta demografica che colpisce particolarmente al Sud e, contemporaneamente, la migrazione soprattutto di giovani dal Sud verso il Nord e verso l'Europa.

Sì, questo è un tema fondamentale, forse il più importante di tutti, nel senso che siamo nel pieno di un fortissimo cambiamento demografico che durerà per decenni. Quello che possiamo, quello che dobbiamo fare è capire che l'intensità di questo cambiamento dipende anch'essa dalle politiche pubbliche. Faccio due esempi, la natalità al Sud ormai è un pochino più bassa che nel resto del Paese, cambiando una situazione che era lì da decenni, questo dipende anche dall'assoluta carenza dei servizi di conciliazione indispensabili alle coppie che vogliono figli di poterli fare con un minimo più di serenità. La mancata diffusione al Sud degli asili nido è sotto gli occhi di tutti.

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E, forse, incide anche il tasso bassissimo di occupazione femminile in queste regioni.

E certo, ma il tasso di occupazione femminile non si eleva con la bacchetta magica. Quello che bisogna fare è uscire dalla logica perversa per la quale i servizi si fanno solo dove ci sono molte donne occupate, invece bisogna fare il contrario, cioè proprio perché ci sono poche donne occupate bisogna fare molti servizi che abilitino l'occupazione femminile. Non solo la natalità, anche le migrazioni interne sono molto condizionate da politiche pubbliche. La scarsità e il declino dei servizi di istruzione e di sanità nei comuni piccoli delle aree interne – ad esempio - è causa fondamentale dello spopolamento. Quindi, più che lamentarsi di questo movimento, bisogna interrogarsi su quali siano le politiche più opportune volte a dare una possibilità di scelta a chi si muove. Il punto non è certamente vietata le migrazioni, ma rendere possibile scegliere di rimanere.

E allora quali sono le politiche pubbliche che secondo lei andrebbero messe in campo?

Sono tutte le politiche pubbliche, dalla sanità alla scuola, dall'Università al potenziamento del settore produttivo e dei servizi. Politiche pubbliche che vanno potenziate soprattutto nelle regioni meridionali.

Quindi lei ci sta dicendo che, per esempio, la riduzione degli edifici scolastici o la riduzione delle case di comunità previste dal Pnrr sono esattamente il contrario delle politiche pubbliche che servirebbero per impedire o per limitare denatalità e migrazione interna?

Certamente sì, bisogna portare l'elemento territoriale in tutte le politiche pubbliche e non invece cercare di compensare politiche pubbliche che aggravano le disparità con piccole politiche di pressione. Faccio un altro esempio, il Governo ha stanziato sei miliardi ulteriori per il sistema delle imprese con il meccanismo di transizione 5.0. Sappiamo perfettamente che misure di questo genere vanno a favorire le imprese che già ci sono e le imprese più forti, esattamente come è avvenuto con transizione 4.0. Quindi se si fa solo questo si sta facendo una politica che polarizza ancora di più la struttura produttiva del Paese invece di favorire un suo sviluppo più armonioso.