In Italia c’è una questione salariale aperta. Lo dimostra l’ultima ricerca realizzata dalla Fondazione Giuseppe Di Vittorio che mette a confronto i salari da lavoro dipendente con quelli delle cinque maggiori economie dell’eurozona. È proprio da questa comparazione con Germania, Francia, Spagna, Belgio e Paesi Bassi che emerge in tutta la sua ampiezza la forbice che pesa sui lavoratori italiani.

Più simili ai nostri i bassi salari spagnoli, decisamente più forti invece le retribuzioni degli altri Paesi. Lo studio, condotto dal ricercatore Nicolò Giangrande, elabora dati Ocse, Eurostat, Inps e quelli del ministero dell’Economia, fotografando la crescita delle buste paga lorde dal 2000 a oggi. A inizio millennio, in Italia il salario lordo medio era pari a 29,1 mila euro, adesso con un aumento del 3,1%, si attesta sui 30 mila. Ben lontano dai 39 mila della Francia, dai 42 mila della Germania e ancora di più dai 47 mila del Belgio e dagli oltre 48 mila dei Paesi Bassi. Il divario colpisce maggiormente se tradotto in percentuale: in Germania e Francia, ad esempio, negli ultimi vent’anni il salario è cresciuto rispettivamente del 18,4% e del 21,4%.

Lo studio che qui pubblichiamo integralmente si addentra nell’esame dei salari anche in base alle varie tipologie familiari proposte dall’Ocse ma il gap non si riduce. In compenso sui salari lordi italiani la pressione fiscale è maggiore.

Complessivamente colpisce il fenomeno del lavoro povero. Oltre 5 milioni di lavoratori – denuncia la Fondazione della Cgil - arrivano solo a 10 mila euro annui. E anche i dati del ministero dell’Economia e delle Finanze confermano questa tendenza, rilevando come 15,6 milioni di persone abbiano dichiarato solo fino a 29mila euro di reddito da lavoro dipendente e da fabbricato, cioè meno del salario lordo medio annuale.

“Il problema risiede soprattutto in scelte di anni volte a recuperare competitività di costo attraverso moderazione salariale, che producono bassa crescita, ristagno della base produttiva e dell’occupazione”. Scrive il presidente della Fondazione Di Vittorio Fulvio Fammoni a commento del report: “Politiche di governi e parte delle imprese che hanno disincentivato investimenti, determinato scarsa innovazione e inciso negativamente sulla domanda aggregata tramite minori consumi. Nei fatti, la scarsa crescita delle retribuzioni di questi anni, è stata uno degli effetti ma anche causa, della stagnazione italiana”.

A preoccupare, però, è soprattutto la prospettiva futura perché gli effetti della pandemia con le loro ricadute su produzione e occupazione, peggioreranno il quadro. “Un riequilibrio dei salari italiani – conclude Fammoni - è dunque necessario, non solo come risposta concreta ai problemi delle persone ma come elemento essenziale della competitività futura del Paese. Può essere affrontato in più modi: un intervento sulla quantità ma anche sulla qualità dell’occupazione che arresti il continuo incremento del lavoro povero; una nuova fase della contrattazione che rinnovi dei contratti collettivi nazionali da troppo tempo bloccati, una riforma fiscale che recuperi risorse da indirizzare verso le retribuzioni. Occorrerà agire su tutte queste leve se si vuole dare fiducia nel futuro, elemento essenziale dello sviluppo, collegandole all’utilizzo degli investimenti con l’accesso ai fondi europei, alla trasformazione del nostro modello produttivo e alle necessarie risorse per far ripartire i consumi”.