Poveri, sempre più poveri. Una certezza che si riflette in ogni dato. Amplificata dalle scelte di questo governo. In un Paese dove è difficile trovare lavoro, e più si è fragili più questa difficoltà aumenta, la fine del reddito di cittadinanza ha aperto uno squarcio lungo il tessuto sociale sempre più delicato. Ce lo ricordano gli indicatori e le fotografie inequivocabili che urlano dai grafici, da quelle torte in cui la fetta dei disoccupati, dei precari, dei poveri, dei quasi poveri, dei neet, dei disagiati, ormai è sempre più grande e indigeribile.

Ce lo raccontano le cronache delle minacce, degli insulti e persino delle mani alzate in molti uffici dei centri di assistenza fiscale in Piemonte, dove l’operatore, solo e fragile come una sentinella di confine, deve dare quelle informazioni al pubblico che lo rendono bersaglio: “No, mi dispiace, lei non ha più diritto a quella misura di sostegno”. E si allunga l’elenco di quei mestieri che, nel clima cupo di questo Paese disgraziato, sono a rischio. Il medico di pronto soccorso, l’autista dell’autobus, l’operatore ecologico, il professore di scuola, adesso il dipendente dei caf. Tutti filtri involontari di quel grado di separazione che esiste ormai tra il paese reale e le decisioni che prende la politica. La rabbia contro lo Stato finisce in un pugno in faccia a loro.

"Nei nostri uffici – ci racconta Monica Iviglia, presidentessa del Consorzio nazionale dei Caaf della Cgil – le persone stanno venendo per capire se la loro situazione economica permette l’accesso a misure di sostegno. E purtroppo molte volte la risposta è no. A un cittadino definito ‘occupabile’, che formalmente può rientrare nel mercato del lavoro, sostanzialmente viene detto ‘cercati un lavoro’”.

L’inizio dell’anno

“Il mese di gennaio appena trascorso ci consegna situazioni di difficoltà, per non dire di povertà e di crisi, ancora più evidenti che nel recente passato – ci spiega Monica Iviglia –. Nei nostri uffici passano quotidianamente persone con la speranza di poter accedere a misure che possano aiutarle ad arrivare materialmente alla fine del mese, chiedendo le informazioni utili a capirlo. Le aspettative su questa nuova misura, l’assegno di inclusione, che nell’immaginario collettivo avrebbe dovuto sostituire il reddito di cittadinanza, sono state presto deluse alla prova dei fatti. Perché il reddito di cittadinanza era uno strumento che non aveva criteri selettivi stringenti se non l’indicatore Isee, laddove invece l’assegno di inclusione oggi è legato a un criterio di selezione forte, che distingue tra chi ha carichi di cura e chi è occupabile. Così i nostri operatori sul territorio si ritrovano a dire ‘no’ a persone spesso disperate che, pur in presenza di redditi familiari complessivi molto, molto bassi, al limite della sopravvivenza, sono tagliate fuori da questi criteri”.

Le due misure

“Se non sei disponibile a lavorare, non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno”. Eccola la frase pronunciata da Giorgia Meloni in Parlamento quando ha annunciato con soddisfazione il superamento del reddito di cittadinanza. Eccola la frase che ha fatto cadere dalla sedia mezzo Paese. Che ha messo in crisi un sistema di sostegno che, pur nelle imperfezioni e nella fragilità, aveva faticosamente raggiunto un equilibrio in grado di disinnescare la bomba sociale di cui iniziamo a udire di nuovo forte il ticchettio. La destra muscolare ha portato a casa lo scalpo del reddito di cittadinanza sulla pelle di decine di migliaia di famiglie e di individui che, dall’oggi al domani, si sono ritrovati senza un contributo che rappresentava quasi tutto il reddito corrente. In cambio di cosa? “Di due misure differenti – ci spiega Monica Iviglia –. Che si rivolgono a una platea più ristretta, con un sistema di accesso molto più complesso”.

L’assegno di inclusione

“La prima misura è l’assegno di inclusione che riguarda i nuclei familiari con un reddito molto basso e in cui c’è un carico molto gravoso di cura. Quelli che hanno al loro interno minori, persone con disabilità o ultrasessantenni e un Isee fino a 6mila euro. Questi nuclei avrebbero diritto all’assegno di inclusione, ma per ottenerlo – ci spiega Monica Iviglia – devono fare una serie di passaggi formali molto complicati, che spesso riescono a superare soltanto rivolgendosi a un caf. Comunque i tempi sono lunghi, in una situazione in cui restare scoperti anche per uno o due mesi rischia di creare un problema di vera e propria sopravvivenza e di catapultare queste persone nella fascia più fragile, quella che per arrivare alla fine del mese deve chiedere l’aiuto delle associazioni di volontariato”.

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Il supporto formazione lavoro

"L’altra misura – ricorda Monica Iviglia – è il supporto formazione lavoro che riguarda la fascia di popolazione che è occupabile. Anche in questo caso il cittadino ha tutta una serie di passaggi burocratici da superare per dimostrare di essere effettivamente occupabile. Il sussidio viene erogato se di fatto la persona entra nel circuito della formazione, ammesso che ci siano corsi di formazione, perché c’è stata tutta una fase transitoria in cui le banche dati che avrebbero dovuto gestire la situazione non hanno funzionato. E parliamo comunque di un supporto per la formazione di 350 euro, non di un sussidio che aiuti la persona senza lavoro a vivere, ad arrivare alla fine del mese mentre riceve anche la formazione".

“Insomma – spiega in modo chiaro la presidentessa del Consorzio nazionale dei Caaf Cgil –, non hai diritto a nulla se non a un supporto transitorio alla formazione, ma non è detto che arrivi perché non è detto che si attivino i corsi. Una complessità nella complessità. Se pensiamo che il reddito di cittadinanza è esploso con la crisi pandemica e che questa misura lo sostituisce solo in parte, possiamo prevedere qual è il punto di caduta di questa situazione, dal momento che i problemi sociali nati in pandemia non sono stati risolti. Ci ritroviamo una fascia di popolazione che non riesce a uscire da questa situazione stagnante e la misura individuata non l’aiuta”. 

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Il grande bluff dell’occupabilità

E allora cosa direbbe alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che con tale sicurezza e soddisfazione ha annunciato la fine del reddito di cittadinanza? “Le direi che un conto è parlare di occupabilità formale, ossia, sono in età da lavoro – secondo la norma compresa tra i 18 e i 59 anni – e un conto è parlare di occupabilità sostanziale. Lo Stato e la situazione socio economica corrente mi dà effettivamente la possibilità di trovarlo, un lavoro? La soluzione studiata dal governo è quella dell’interoperabilità delle banche dati, come se bastasse mettere insieme delle banche dati, incrociare domanda e offerta, per creare posti di lavoro. In realtà la si deve realizzare questa presunta occupabilità, farla diventare sostanziale. E per farlo ci vorrebbe un’azione molto più complessa che passa per il potenziamento dei centri per l’impiego, per l’attuazione di politiche industriali e di sviluppo, per un lavoro concreto sulla formazione professionale e la riqualificazione”.

“Il governo non fa quello che dovrebbe, dice semplicisticamente: ‘c’erano persone che non volevano lavorare, noi le riportiamo al lavoro’. Ma il lavoro non c’è, neanche in molte regioni del Nord allo stato attuale. Quindi siamo distanti anni luce da un esito positivo. Pensare che i sei mesi passati, da giugno a dicembre 2023, gli ultimi in cui si è erogato il reddito di cittadinanza, sarebbero magicamente bastati a risolvere l’incognita più complessa di questo Paese attraverso l’incontro virtuoso tra domanda e offerta di lavoro, rioccupando persone che non riescono a trovare un impiego da anni, era già chiaro a tutti che fosse un’utopia. E la situazione attuale è la prova dei fatti. Con l’unica ricaduta che si sta scaricando sui servizi sociali e sui centri per l’impiego, da anni sotto organico e senza risorse, molta parte dell’impatto di questa situazione”.

Il ruolo dei Caaf Cgil

In questo quadro qual è il ruolo dei Caaf della Cgil? “Gli operatori dei Caaf – ci spiega Monica Iviglia – sono a disposizione delle persone”.

“Essendo un punto di riferimento per i cittadini, per i pensionati e per le fasce di popolazione spesso più in difficoltà come i migranti, a volte diventa difficile per gli utenti distinguere chi lavora nei nostri uffici e spiega una misura da chi quella misura l’ha pensata e varata. Ma non ci tiriamo indietro, ci mancherebbe, il nostro ruolo è quello di dare una mano a trovare le soluzioni, spiegando ai cittadini che ci chiedono aiuto che queste misure non risolvono il problema del Paese e lo trascineranno in una condizione ancora più povera. Noi – ci dice con orgoglio la presidentessa del Consorzio nazionale dei Caaf Cgil – lottiamo contro la povertà e lo facciamo anche sostenendo le politiche più generali della Cgil”.