C’è un algoritmo che decide cosa può essere detto e cosa no. Non una persona, non un giornalista, non un moderatore preparato, ma una macchina senza volto, senza contesto, senza discernimento. È così che Meta ha riscritto le regole del dibattito pubblico: togliendo di mezzo la responsabilità umana e affidando il controllo delle informazioni a un’intelligenza artificiale incapace di distinguere tra verità e menzogna, tra notizia e pericolo, tra libertà e “contenuto non conforme”.

Il risultato è gravissimo: un potere privato, sottratto a ogni forma di controllo democratico, che censura, oscura, riduce al silenzio. E lo fa nel modo più pericoloso: senza dirlo, senza spiegarlo, senza assumersene la responsabilità.

Nel nome della “sicurezza informatica”, Facebook ha rimosso diversi post di Collettiva che raccontavano la realtà: una frase del Papa sulla pace, la cronaca di tre morti sul lavoro in Sicilia, l’annuncio di uno sciopero dei metalmeccanici. Nessuna violazione. Nessun contenuto d’odio. Solo informazione. Ma per l’algoritmo, evidentemente, raccontare il mondo com’è rappresenta un problema.

E allora interviene: cancella, nasconde, penalizza. In automatico. In silenzio. In assenza totale di trasparenza. La giustificazione, ogni volta, è la stessa: “errore tecnico”. Ma non è un errore. È il sintomo di un sistema costruito per disinnescare il conflitto, sterilizzare il dibattito, rendere il mondo uniforme, addomesticato, privo di domande scomode.

Il danno è profondo. Il prezzo lo paga la libertà di informazione. Lo paga la democrazia. Perché se un algoritmo può decidere quali voci possono circolare e quali no, se può oscurare contenuti senza dare conto a nessuno, allora non siamo più in uno spazio pubblico. Siamo in un recinto privato, dove la parola è concessa a condizione che non disturbi.

Collettiva è stata colpita duramente. Post cancellati, anche a distanza di mesi, contenuti oscurati, visibilità azzerata. Nessun preavviso, nessuna spiegazione. Solo una constatazione inquietante: se racconti il lavoro, se dai voce alle lotte sociali, se parli di diritti, l’algoritmo ti punisce.

E così la realtà viene espulsa dal dibattito. Il dissenso viene declassato a disturbo. L’informazione indipendente viene silenziata non con la forza, ma con un clic. Non da uno Stato autoritario, ma da una multinazionale senza volto.

Questa è la nuova frontiera della censura. Subdola, asettica, sistematica. E chi oggi non se ne accorge o minimizza, domani rischia di trovarsi nella stessa rete, privato del diritto di parola, della possibilità di informare, del potere di esistere nel discorso pubblico.

La libertà d’informazione non è una concessione: è un diritto, un presidio democratico, un bene comune da difendere ogni giorno. E oggi è sotto attacco non con la repressione esplicita, ma con l’opacità di un algoritmo che non spiega, non capisce, non risponde.

Ma noi non siamo disposti a cedere. Non staremo zitti mentre una macchina decide cosa possiamo sapere, cosa possiamo dire, cosa possiamo leggere. Pretendiamo trasparenza. Pretendiamo regole pubbliche. Pretendiamo che il diritto di informare e di essere informati sia rispettato anche – e soprattutto – nelle piattaforme digitali che influenzano la vita democratica.

Chi pensa che si tratti solo di “errori” non ha capito la posta in gioco. Questo riguarda tutti. Perché oggi colpisce Collettiva, ma domani potrebbe toccare a chiunque osi raccontare qualcosa che non rientra nei parametri. E allora no, non ci abitueremo. Non abbasseremo la voce. Continueremo a raccontare, a denunciare, a esserci. Perché l’informazione libera è l’ossigeno della democrazia. E noi non intendiamo smettere di respirare.