È il 1945 quando le Nazioni Unite per la prima volta introducono il principio dell’uguaglianza tra i generi nella Carta dei valori, il primo statuto internazionale a riconoscerlo come valore fondante. È così che nasce, nel 1975, l'8 marzo come giornata internazionale della donna.

Sono passati 79 anni e il cammino verso il riconoscimento della parità di genere è ancora impervio, non tanto sul piano concettuale quanto su quello sostanziale. Anno dopo anno la lotta per raggiungere sostanzialmente gli stessi diritti degli uomini si acuisce, si rafforza e si polarizza anche e soprattutto sul piano politico. Per non parlare dell'estenuante conflitto esistente sul piano sociale: il mondo è andato avanti, donne e uomini sono cambiati, ma il contesto culturale all’interno del quale si misurano no.

Le istanze che avanzavano le femministe della prima e della seconda ondata sono diverse da quelle avanzate dalle nuove generazioni. Le lotte, le sfide, il linguaggio, la cultura, sogni e ambizioni sono cambiati. Viene naturale allora chiedersi: cosa vogliono le giovani donne oggi?

È partendo da questa domanda che le giovani della Cgil, l’Unione degli Universitari e la Rete degli Studenti Medi hanno redatto insieme un manifesto, in occasione della ricorrenza, per gridare a gran voce qual è il mondo in cui vogliono realizzarsi e gli obiettivi che vogliono raggiungere, condivisi dalla Confederazione e spunto di riflessione per tutte e tutti.

E quindi, cosa vogliono le giovani donne oggi? Rispondono Chiara Mancini (Filt), Martina Bortolotti (Fp), Aurora Iacob (Rete Studenti), Gaia Chiacchiera (Udu) e Camilla Baldan Bembo (Udu).

IL MANIFESTO

Vogliamo un’istruzione accessibile e adeguata alle nostre ambizioni, senza pregiudizi di genere, di classe, di razza.

La cultura dominante impone da sempre ruoli di genere ben distinti. Alle bambine viene insegnato fin da piccole ad essere composte, sensibili, amorevoli. A giocare a pulire, cucinare o accudire. A preferire il rosa al blu, la danza al calcio. La gonna al pantalone. I capelli lunghi a quelli corti. Questa spartizione accompagna uomini e donne nell’arco di tutta la propria vita. Dall’infanzia, allo studio, nella carriera e nelle scelte di vita.

Nel mondo universitario, ogni anno quasi il 60% delle matricole sono donne, e la maggior parte sceglie percorsi di area umanistico-sociale. Fare una scelta diversa significa essere in minoranza, e vivere sulla propria pelle la discriminazione di essere donna, di non essere adatta a quel percorso. Uno degli obiettivi del PNRR è proprio quello di incentivare l’iscrizione delle donne alle lauree STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma abbassare le tasse universitarie per chi si iscrive a questi percorsi non è sufficiente. Il primo passo è quello di decostruire la cultura patriarcale che ci vuole dolci e accudenti. Quando la cura non sarà più l’unico percorso possibile, allora saremo davvero libere di scegliere.

Vogliamo sentirci libere di camminare per strada senza paura.

“Quando esco di casa, voglio sentirmi sicura, non coraggiosa!”. È uno slogan che è circolato molto sui social media dopo l’ennesimo caso di femminicidio, che ha tolto la vita alla 22enne Giulia Cecchettin, lo scorso novembre. Una tragedia che ha toccato molto l’opinione pubblica e ha innescato un’ondata di sdegno. Il punto è proprio questo: noi donne siamo costrette a rinunciare ad alcune esperienze per il solo fatto di essere donne. Viaggiare da sole, passeggiare la sera, fare jogging nel bosco. Sono tutte forme di libertà che per noi rappresentano un rischio. E ci risulta inconcepibile non avere, nei fatti, gli stessi diritti e le stesse libertà degli uomini. Una donna evita di camminare in una via poco illuminata, perché un uomo può farle del male. La punizione, quindi, viene inflitta alla vittima invece che al carnefice.

Vogliamo programmi di educazione sessuale, affettiva e al consenso nelle scuole di ogni ordine e grado.

L’educazione affettiva è obbligatoria in ben 19 Paesi europei. In questo senso l’Italia è un pessimo esempio. All’interno delle nostre scuole ed università abbiamo bisogno di programmi che ci educhino alla costruzione di rapporti sani e rispettosi dell’autodeterminazione dell’altro. Serve decostruire pezzo per pezzo la cultura machista e patriarcale che impone standard tossici e irraggiungibili sia alle donne che agli uomini di questo Paese: uomini virili e possessivi, donne fragili e bisognose di protezione. Un vero cambio di passo può partire solo dai luoghi del sapere.

Vogliamo essere riconosciute, ascoltate, chiamate per nome e non limitate dal ruolo sociale.

Figlie, mogli, madri, sorelle, cugine. Fino ad oggi le donne sono spesso state riconosciute in relazione all’altro. Oltre che per il proprio aspetto. Noi abbiamo imparato ad autodeterminarci, a combattere per un riconoscimento che da formale diventasse sostanziale. Abbiamo dei nomi. Siamo studentesse, lavoratrici, dottoresse. Vogliamo essere libere di costruirci una carriera, di prenderci spazio, di parlare ricevendo ascolto. Non abbiamo bisogno di essere guidate, di essere protette o consolate.

Vogliamo meno lavoro e turni che ci permettano di vivere la vita.

Oggi la nostra società impone un modello di lavoro totalizzante, che assorbe il nostro tempo e le nostre energie, lasciando spazio a poco altro. Vogliamo una vita dignitosa, fatta di lavoro, affetti, passioni. Vogliamo lavorare e vivere meglio. Vogliamo realtà lavorative “umane”, flessibili, innovative, disponibili ad accogliere le esigenze di vita di ognuna di noi: permessi e congedi legati alla maternità, al ciclo mestruale e alle malattie femminili, agire su turnistica, job rotation e medicina di genere.

Vogliamo essere libere di decidere come usare il nostro tempo, superando le imposizioni sociali, che ci vorrebbero relegate unicamente al lavoro di cura.

Il diritto al tempo libero, da dedicare a sé stessi, ai rapporti interpersonali, alle proprie passioni, è imprescindibile per una vita di qualità. Le donne spesso vivono le proprie giornate lavorando, dentro e fuori casa. Il lavoro di cura della casa e della famiglia sono, oggi, ancora quasi esclusivamente sulle nostre spalle. E quel che ricade sull’uomo appare quasi come un favore, una fortuna caduta dal cielo! Ma il tempo delle donne, come quello degli uomini, è prezioso, essenziale per costruirci una quotidianità dignitosa e per occupare il nostro tempo come meglio desideriamo. Vogliamo il diritto di assentarci da casa, di iscriverci a un corso, di seguire una passione senza per questo risultare negligenti.

Vogliamo un Paese che ci permetta di diventare mamme, quando lo vogliamo e non quando lo dice il portafoglio. Una parità che inizi in casa.

Non dobbiamo per forza diventare mamme. Ma se lo vogliamo, il nostro non può essere un percorso a ostacoli, da affrontare sole (e con il peso del pancione). Per questo abbiamo bisogno di attenzione alla nostra salute – fisica e mentale -, di asili nido che ci permettano di non rinunciare al lavoro o alla carriera che vogliamo, di welfare pubblico e comunità solidali, e di dividere le fatiche equamente con i papà, attraverso un congedo di paternità più lungo e consistente. Perché la parità non si raggiunge con la teoria, ma condividendo le esigenze di cura e permettendo anche ai padri di avere l’enorme privilegio di instaurare una relazione profonda con i propri figli.

Vogliamo poter decidere di non diventare madri senza essere giudicate donne di serie B, incomplete o snaturate.

Il modello patriarcale della famiglia propone ed impone nella cultura comune un rapporto madre-figlio che assume caratteri idilliaci, che dà un senso all’esistenza dell’individuo, che completa un’esistenza altrimenti “mozzata”. Ciò negando completamente la possibilità di un rapporto contraddittorio con la genitorialità, di amore da una parte, e di fatica, frustrazione e rinuncia dall’altra. Uscire dagli schemi di quel modello significa non essere una buona madre. Significa rimanere sole e isolate. La scelta, poi, di non volerlo essere è per molti ancora incomprensibile e inaccettabile. Ancora oggi viene ritenuta da gran parte della società come una forma di stranezza, che cela al suo interno una problematica, biologica o psicologica. Donne senza figli vengono guardate con compassione, considerate strane, incomplete, snaturate e problematiche.

Vogliamo essere rispettate. Vogliamo poter arrivare ovunque.