Fischio d’inizio per i Mondiali di calcio del Qatar, nessuno vuole rovinare la festa (per altro già depotenziata dall’assenza della Nazionale italiana), ma fermarsi a pensare per poi agire in futuro è d’obbligo: 6500 lavoratori migranti morti in circa dieci anni, 12 alla settimana, nel Paese arabo che per affrontare il Campionato di calcio ha dovuto costruire sette stadi, oltre a infrastrutture di ogni genere compresa la città che ospiterà la finale.

La Kafala è schiavitù

Il progetto giornalistico Cards of Qatar ha pubblicato un album di figurine che non ritraggono però i campioni dei Mondiali, ma i morti sul lavoro per i monumentali lavori costati ben 200 miliardi di dollari. Organizzazioni umanitarie e sindacati, subito dopo l’assegnazione della sede dei Mondiali al Qatar, hanno denunciato le condizioni più che precarie di sicurezza e salute nelle quali lavorano gli operai nel Paese arabo. Questo anche a causa del sistema della kafala, secondo il quale il lavoratore deve legarsi a uno sponsor che dovrebbe garantire per lui, ma che in realtà acquisisce un potere tale da privarlo di tutti i diritti.

Le ispezioni dei sindacati

Racconta Marco Benati, responsabile del dipartimento per le Politiche internazionali e Cooperazione della Fillea, la categoria della Cgil che ha partecipato nel 2017 alle missioni in Qatar con il Bwi (il Sindacato internazionale dei lavoratori dell'edilizia e del legno) e alle ispezioni sulla sicurezza allo stadio Al Bayt: “Non ci hanno fatto vedere moltissimo, ma ci siamo resi conto del forte controllo sui lavoratori e della loro mancanza di libertà”. Ed è questo che l’ha particolarmente colpito, le difficoltà a parlare con i lavoratori, come anche la reazione delle autorità che, in un’occasione, hanno trattenuto per due ore la delegazione sindacale adducendo come motivo presunte irregolarità, il tutto in un “clima molto pesante”.  

“I Mondiali hanno messo in luce una tendenza generalizzata di alcuni Paesi – prosegue Benati -.  La Fifa è stata troppo timida. Il campionato è stato assegnato a un Paese che non garantisce i diritti dei lavoratori” e Fifa, Coni e Parlamento italiano avrebbero dovuto prendere una posizione".

Le iniziative sindacali hanno comunque prodotto un qualche risultato: la Fifa è stata costretta “a prendere una posizione e appoggiare il monitoraggio e la formazione dei lavoratori in Qatar”, si è avviato un confronto per adottare organizzazioni del lavoro e costituire a Doha “un centro sindacale per lavoratori migranti, dove possano riunirsi, associarsi e avere un sostegno a livello internazionale”.

Le associazioni umanitarie per le famiglie dei morti

Dal canto suo Amnesty International, che si batte da dodici anni per i diritti dei lavoratori migranti in Qatar, punta la sua attenzione sui risarcimenti. “Abbiamo chiesto alla Fifa di instituire un fondo di 440 milioni di dollari per risarcire i lavoratori per i danni subiti – spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia e autore del libro ‘Qatar 2022, i mondiali dello sfruttamento -. Risarcimenti per i mancati versamenti degli stipendi e soprattutto per le famiglie dei morti sul lavoro, quelle di origine che avevano nei loro familiari in Qatar l’unica rimessa possibile e fonte di reddito e si sono unicamente indebitate fino all’ultimo per fare i funerali”.

Obiettivo "mai più"

Ma questa campagna condotta per i Mondiali di calcio 2022 non può esaurirsi con il fischio d’inizio. “Il tempo sta scadendo – dice Noury -, ma dipenderà molto dalla pressione che si farà in queste settimane: i tifosi sono mobilitati, sette delle 32 nazionali di calcio sono in favore delle richieste di Amnesty e il lascito della nostra campagna riguarda non il tempo indeterminato, ma il domani, perché in quegli stadi, in quei Paesi, con quei lavoratori si faranno i campionati asiatici di calcio nel ‘23, poi si faranno i giochi asiatici invernali del ‘29 in Arabia Saudita, che intanto si è candidata anche all’Expo 2030. Se non si riforma il diritto del lavoro in quella parte del mondo, così straordinariamente ricca dal punto di vista economico e delle risorse, questa forza lavoro itinerante nei Paesi del Golfo continuerà a soffrire”.