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Per chi insegna nella scuola le mattinate che precedono l’inizio delle lezioni sono un lento susseguirsi di collegi, consigli, riunioni, dove si parla di tutto, e forse di niente. Questi però non sono giorni come tutti gli altri: venti di guerra soffiano da Est a Ovest, e la cartina geografica appesa al muro si riempie di buchi neri dai quali sembra sempre più difficile uscire. Le notizie che arrivano da fuori inevitabilmente entrano in sala professori, senza nemmeno bussare, travolgendo la nostra quotidianità.
Tra colleghi si parla di quanto accade, di come comportarsi in classe, di come parlarne, che è ben diverso dal se parlarne o no. La riunione del dipartimento di lettere si infuoca ma bene o male tutti siamo d’accordo su un punto, sul fatto che qualcosa bisogna fare, non si può restare inermi, non si può far finta di nulla, è il momento di prendere una posizione netta, anche simbolica, ma chiara ed evidente.
Si potrebbe esporre la bandiera della Palestina fuori dalla scuola, propone qualcuno, mentre qualcun altro ricorda che nella primavera del 2022 l’abbiamo già fatto con quella dell’Ucraina. Forse la questione deve aggiungersi ai punti all’ordine del giorno del collegio docenti di domani. Urge chiamata alla vicepreside.
E allora eccoci qui, prima delle varie ed eventuali, a discutere insieme alle maestre dell’infanzia e della primaria la proposta suggerita dal dipartimento di lettere della secondaria di primo grado. C’è chi richiama le posizioni già prese da altri istituti, chi invoca la solidarietà da terra verso chi si è messo in mare, destinazione Gaza. Le mani alzate qui e là, gli interventi si intensificano fino a quando la dirigenza scolastica, supportata dai suoi collaboratori, esce dall’angolo e tira fuori l’asso nella manica: la nota dell’Usr, l’ufficio scolastico regionale, a firma di chi lo guida.
Traducendo le arzigogolate perifrasi, il testo raccomanda ai dirigenti di garantire “massima serenità” nel parlare di certe cose; se poi non se ne parlasse proprio ancora meglio, e tanti saluti al dialogo, al confronto, al tentativo di trovare la giusta misura per parlarne anche in classe.
Perché quello che forse non sanno all’Usr è che in classe se ne parlerà comunque, inevitabilmente, non per volontà di qualche “cattivo maestro” ma perché i nostri studenti vivono il mondo, vagano nella rete, e ogni tanto capita anche a loro di ascoltare o vedere qualche notizia dai vari organi di informazione, e discuterne in famiglia. E sono loro a fare delle domande, anche a scuola. Domande spesso ben precise, per le quali gradirebbero risposte altrettanto puntuali. Nascondere la testa sotto la sabbia non serve a niente, non serve a nessuno.
Il problema dunque c’è, e deve essere affrontato, ma durante il collegio agli interventi si aggiungono i mugugni, c’è chi prova a cambiare discorso, chi pensa di non dover far entrare la politica nella scuola, chi ribatte che la scuola è politica. Chi firma e se ne va.
La professoressa di italiano, ormai prossima alla pensione, il sorriso amaro che porta con sé le tante battaglie combattute, saluta con una battuta a voce bassa: “Mi è quasi venuta voglia di ritirare fuori la vecchia kefiah, da troppo tempo riposta nel cassetto. Potrei metterla al prossimo collegio docenti, chissà se mi farebbero entrare…”.
Parole che restano sospese, mentre la grande aula multidisciplinare pian piano si svuota. Domani si ricomincia.