La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 operai - molti dei quali giovanissimi - muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. A scatenare l’evento è un incendio, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia.

Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza - dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo - e paleseranno la disorganizzazione del cantiere - di proprietà della Mecnavi Srl -, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori in nero.

“Mai più - scriveva il giorno successivo Pietro Folena su l’Unità - Questo si deve promettere, che mai più possano accadere tragedie come quella di ieri, a Ravenna. Tredici morti. Due venivano dal Sud. Uno era egiziano. Gli altri di Ravenna, di Bertisoro, di altri comuni vicini. Dieci erano ragazzi tra i 19 ed i 24 anni, e tre lavoravano ieri per il primo giorno. (…) Non si osi parlare di tragica fatalità (…) le responsabilità appaiono evidenti. (…) Eccoci allora dalla rabbia di nuovo al dolore. Dal dolore ancora all’incredulità. Come può succedere in un mondo che si pretende ‘civile’. Come può accadere in un’Italia che si pretende ‘avanzata’. Ora bisogna punire i colpevoli. Ma anche cambiare le cose. Lo dobbiamo a Alessandro, a Onofrio, ai loro compagni”.

Era 37 anni fa. Sembra oggi. “Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro - scriveva qualche tempo fa Angelo Ferracuti commemorando quella tragedia - La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. (…) Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. (…) Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita”.

Solo nel mese di gennaio 2024 sono accaduti complessivamente 45 infortuni sul lavoro: sono stati 33 gli infortuni mortali in occasione di lavoro e 12 quelli in itinere. Rispetto allo stesso mese del 2023, il dato è in leggera crescita con un numero di decessi superiore di 2 unità (+4,7%).

I morti sul lavoro sono stati oltre 1000 nel 2023, quasi tre al giorno. Una strage. Un’infinita sequela di omicidi che ha un mandante: il disprezzo delle leggi, la corsa al profitto, lo sfruttamento del bisogno, la paura di perdere il proprio lavoro - quando si è così “fortunati” da trovarne uno -, il silenzio.

“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no”, affermava l’arcivescovo di Ravenna, Ersilio Tonini, al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987. Forse non sarebbe accaduto.

“Da Ravenna - tornava a dire nella sua omelia del 16 marzo il monsignore - dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli.”

“Le chiamano ‘morti bianche’ - scriveva Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza -, come se avvenissero senza sangue. Le chiamano ‘morti bianche’, perché l’aggettivo bianco allude all’assenza di una mano responsabile dell’accaduto, invece la mano responsabile c’è sempre. Le chiamano ‘morti bianche’, come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna. Le chiamano ‘morti bianche’, ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica. Le chiamano ‘morti bianche’ per farle sembrare candide, immacolate, innocenti. Le chiamano ‘morti bianche’, tanto non meritano che due righe sui quotidiani, sì e no una citazione nei TG. Le chiamano ‘morti bianche’, per evitare che si parli di omicidi sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, bianche come il silenzio, come l’indifferenza che si portano dietro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma non sono incidenti, dipendono dall’avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, un modo di dire beffardo, per delle morti che più sporche di così non possono essere.
Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono il risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dove la vita non ha valore rispetto al profitto. Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono un’emergenza nazionale, anche se c’è chi dice che sono in calo. Le chiamano ‘morti bianche’, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma quanto tempo passerà ancora perché vengano chiamate con il loro vero nome?”.

Le chiamano morti bianche, ma non lo sono mai. Sono morti rosse, come il sangue versato. Morti nere, come la coscienza di chi ha la responsabilità di evitare che queste disgrazie accadano. Morti nere. Come nero, troppo spesso, è il lavoro. Morti nere. Come la nostra rabbia. Come la nostra - di tutti! - vergogna.