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Il voto referendario si avvicina, e i quattro quesiti sul lavoro e quello sulla cittadinanza cominciano, finalmente, a essere oggetto di discussione anche pubblica. Con un ritardo fin troppo evidente, i cui responsabili sono ormai ben noti e scoperti. Ma chi invita a non votare i prossimi 8 e 9 di giugno, in aperta malafede denuncia la volontà di non voler cambiare l’ordine delle cose nel mondo del lavoro, oltre che in tema di cittadinanza, soltanto per mantenere un ordine delle cose che conviene a pochi, di norma i più ricchi, a discapito di molti, coloro i quali quotidianamente devono fare i conti con la vita.
Eppure, dei quesiti sul lavoro almeno uno dovrebbe mettere tutti d’accordo, quello riguardante i termini di sicurezza e le responsabilità delle imprese, visti i numeri incresciosi, indegni per un paese considerato civile, che ogni giorno siamo costretti a registrare tra incidenti e vittime, e che alla fine di ogni anno contano ormai da troppo tempo intorno ai mille morti: qualcuno in più, qualcuno in meno, sembra non faccia differenza.
Se si vuole approfondire meglio questo punto, viene in aiuto un libro appena pubblicato dal titolo Operaicidio (Marlin editore, pp. 196, euro 16,90, con introduzione di Luciano Canfora), neologismo coniato dai due autori, il magistrato Bruno Giordano e il giornalista Marco Patucchi. Un volume allo stesso tempo d’inchiesta e di denuncia, che chiama direttamente in causa le responsabilità delle istituzioni, e la loro colpevole assenza nel proporre e realizzare strategie d’intervento che possano limitare questa tragedia quotidiana.
Il merito di queste pagine è però anche quello di contrastare e per certi versi superare la reiterazione di un resoconto soltanto numerico, e cronachistico, della realtà, per introdurre una riflessione concreta, fatta di proposte che guardano a una riforma pratica dell’intero sistema di sicurezza, compresi gli infortuni sul lavoro, quasi mai denunciati, sino alle morti per amianto, sempre molto difficili da individuare, e quelle conseguenza del fenomeno del caporalato.
Ma Giordano e Patucchi si soffermano anche su altri tipi di responsabilità, che chiamano in causa i modelli e i linguaggi dell’informazione contemporanea, dedita allo stesso tempo al sensazionalismo e l’occultamento, soprattutto rendendo invisibili i famigliari delle vittime, sino alla inconcludenza incivile di percorsi giudiziari prolungati per un tempo lunghissimo, prima di spegnersi quasi sempre in assoluzioni o prescrizioni che gridano vendetta.
“È un libro che non avremmo voluto scrivere - sono le parole di Bruno Giordano - ma abbiamo dovuto farlo perché in un Paese in cui il lavoro uccide e ferisce e molti non fanno il proprio dovere, noi non potevamo limitarci a fare solo il giornalista o il magistrato. Abbiamo dovuto scrivere quello che non possiamo scrivere su un articolo o in una sentenza”.
Ed è proprio questa la peculiarità di queste pagine, occuparsi di determinati contenuti come mai era stato fatto prima; un approccio confermato anche dall’altro autore, Marco Patucchi: “Nel nostro libro raccontiamo storie, analizziamo cause e responsabilità, soprattutto facciamo proposte concrete, non retoriche, per provare a frenare questo crimine di pace”.
Definito con acuta definizione “lo Spoon River delle vite invisibili delle morti sul lavoro”, il piano narrativo di questo volume è la spietata osservazione di una tragedia spesso digerita dalla pubblica opinione come fatalità o fenomeno ineluttabile, mentre in realtà è la fotografia di una assenza di coscienza collettiva, priva di ogni senso di colpa. Il voto referendario può aiutare, almeno in parte, a recuperare questa drammatica piaga italiana.