Oscar Mancini è un protagonista importante di storia della Cgil veneta (e dell’intero sindacato italiano), alla quale cominciò a dedicarsi poco più che ventenne lasciando la sua terra d’origine (è nato a Rimini) e ricoprendo nel tempo, tra gli altri, i ruoli di  dirigente e segretario della Cgil regionale. Lo ricorda nelle prime pagine di questo suo libro dal titolo Cotorossi. Una storia collettiva. Lo stadio, le chiese, la piazza, il tribunale (Ronzani editore, pp. 307, euro 20), la ricostruzione puntuale quanto passionale della lotta in difesa della fabbrica CotoRossi di Vicenza, in un arco di tempo compreso nell’ultima parte del decennio Settanta del Novecento, quando la conquista dei diritti dei lavoratori era ancora una questione sociale condivisa, in grado di coinvolgere un’intera comunità.

Lo dimostra il racconto, o meglio i tanti racconti che l’autore interseca partendo da un espediente letterario dai tratti fortemente simbolici, vale a dire la ricerca commissionata a due giovani di oggi (Yasmine e Gigi, appena maggiorenni) dalla loro professoressa di storia che chiede ai suoi studenti di scoprire il passato della città dove vivono, scegliendo a loro piacimento le vicende di un luogo. Parte in questo modo il viaggio nella storia del CotoRossi, una fabbrica alla periferia est di Vicenza, dove oggi sorge il nuovo tribunale cittadino. Si torna così a respirare l’aria di un passato divenuto troppo in fretta remoto e che pure continua a insegnarci molto.

Proprietà del barone Domenico Rossi, l’azienda gode di una certa prosperità anche in tempo di crisi nel settore tessile e laniero, ben più solida ad esempio delle sue “sorelle” presenti nella provincia, Marzotto e Lanerossi: un nome, quest’ultimo, che ai più incalliti tifosi di calcio con i capelli ormai ingrigiti ma dall’inossidabile memoria pallonara, evoca le gesta di quel Lanerossi Vicenza che proprio nella stagione 1977-78 sarà vicecampione d’Italia, alle spalle di una Juventus già padrona, come padrona era la famiglia Agnelli. 

Al centro dell’attacco di quella squadra c’era Paolo Rossi, che diverrà Pablito soltanto nel 1982 in Spagna, dopo lo scandalo del calcio-scommesse, ma che già faceva sognare ogni tifoso, desideroso di vederlo con la propria maglia addosso. Ed è proprio durante una partita di campionato contro il Napoli, nel gennaio del 1978, che la protesta sindacale per i lavoratori della Cotorossi, che nel frattempo aveva sospeso il pagamento degli stipendi, raggiunge gli spalti del “Menti”: dagli altoparlanti dello stadio è lo stesso Oscar Mancini, allora segretario generale della Filtea Cgil, a rivolgersi ai tifosi presenti, duecento dei quali sono i lavoratori stessi, ospitati per l’occasione in tribuna centrale per scongiurare l’occupazione del prato verde.

Le parole di Mancini risuonano, è proprio il caso di dire, in  ogni ordine di posto: “Amici sportivi, siamo qui per assistere a una partita appassionante tra due grandi squadre, ma prima consentitemi di ricordare a tutti noi il dramma dei 3.000 lavoratori del CotoRossi da sei mesi senza salari e stipendi”. L’applauso che arriva dalla curva vicentina lo incoraggerà a proseguire il suo discorso, sino a promuovere la manifestazione pubblica del giorno successivo. Superfluo aggiungere che non ci sono più le curve di una volta.

Nelle parti successive, come il sottotitolo del volume evidenzia, vengono descritte le altre forme di partecipazione civile alla vicenda CotoRossi, che aprono squarci significativi di solidarietà anche nella roccaforte del cosiddetto “Veneto bianco”, vale a dire democristiano e cattolico fino al midollo. Ma tra i meriti di questo libro c’è inoltre la capacità di mettere progressivamente insieme i tasselli di questa memoria, arrivando, dalle successive battaglie dei “Non Dal Molin” e di Borgo Berga, sino ai giorni nostri, e a una proposta politica individuata da Mancini nell’esigenza di unire il “rosso” al “verde”, vale a dire l’idea di una visione economica e sociale di carattere progressista da coniugare con i temi sempre più gravi e urgenti legati alla tutela dell’ambiente e a una economia di conseguenza concretamente sostenibile.   

Non avendo resistito alla tentazione di scambiare qualche parole direttamente con lui, Oscar Mancini ci dice che “in questa narrazione che supera mezzo secolo ho tentato di mettere in evidenza che in passato avevamo di fronte dei padroni duri, come alla Marzotto, mentre oggi ti trovi di fronte un capitalismo senza volto, che realizza delocalizzazioni e soprusi a discapito dell’essere umano e dei luoghi in cui vive. Ecco perché alla fine di questo libro cerco di indicare la necessità di unire il rosso e il verde, come unica prospettiva possibile”.

Un concetto, questo, ribadito seppur attraverso diversa analisi anche nella prefazione al volume del segretario generale della Cgil Maurizio Landini. Alla fine, la sensazione che resta di questa lettura è la scomparsa di un mondo, di un secolo dal quale possono ancora trarsi utili lezioni per affrontare la nostra più stringente quotidianità, recuperando valori e sentimenti che non hanno tempo. Che poi, a ben pensarci, è il fascino intrinseco di ogni bel libro.