Torna a Torino, per la sua quinta edizione biennale, LiberAzioni, il festival delle arti dentro e fuori il carcere, che dal 1° al 16 ottobre proporrà film, spettacoli, presentazioni, laboratori a ingresso libero. Fra gli ospiti Andrea Pennacchi, Daniele Mencarelli, Paola Bizzarri, Celina Escher, Edgardo Pistone e la compagnia Voci Erranti. Due settimane, dedicate al dialogo tra le persone detenute e il resto del mondo, per costruire ponti attraverso l’arte. Il festival è promosso da un gruppo di associazioni culturali e del terzo settore, coordinate dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema. 

Valentina Noya, direttrice artistica di LiberAzioni, quale è stata dieci anni fa la scintilla all’origine del festival?

Sono passati ben dieci anni da quando nacque l’idea, che come Associazione Museo Nazionale del Cinema condividemmo insieme a un gruppo di cooperative e realtà del terzo settore. Una compagine molto ampia, che oggi anima ancora il Festival LiberAzioni, l’apice di un lavoro che va avanti per tutto l’anno, con uno sforzo importante, collettivo e capillare. La scintilla è scoccata dal nostro impegno quotidiano per il reinserimento lavorativo e i diritti delle persone private della libertà personale. Grazie a una rete di sostegni sia pubblici che privati, negli anni abbiamo portato avanti un’idea di festival che favorisse l'osmosi tra il dentro e il fuori, partendo dal presupposto che le persone recluse lo sono per un tempo limitato della loro esistenza. Le persone non sono il loro reato ma necessitano, nel periodo in cui sono recluse, di compiere un percorso che le renda preparate a reinserirsi nella società. E proprio l’arte, attraverso il dialogo, può alimentare questo scambio tra due mondi che non devono essere intesi come dicotomici.

Qual è secondo lei il punto debole di questo processo di rieducazione oggi?

A mio parere è la delega pressoché totale da parte delle istituzioni nei confronti degli enti culturali e del terzo settore, che si trovano a dover supplire alle lacune dello stato sociale. Oggi sono le realtà associative a farsi in gran parte carico di quello che la politica trascura, mentre lo stato sociale viene progressivamente eroso. Il carcere è il riflesso di questo processo. Per esempio molti docenti, che abitualmente insegnano in carcere, negli ultimi tempi lamentano quanto ciò sia diventato più difficile. E invece è importante garantire anche dietro le sbarre il diritto universale allo studio. Il tempo del carcere deve essere assolutamente valorizzato.

Per quali motivi questi progetti stanno subendo dei ridimensionamenti?

Innanzitutto per via degli scarsissimi investimenti pubblici destinati alla riabilitazione delle persone recluse. Ma anche a causa di una chiusura sempre più ideologizzata da parte delle istituzioni. Le realtà culturali come la nostra fanno sempre più fatica a inserire nella loro programmazione le attività realizzate per e con le persone detenute.

Alla luce di quanto detto fino ad ora è chiaro che un festival come LiberAzioni si pone tra gli obiettivi quello di fare pressione sulle istituzioni. Ma vuole anche parlare all’opinione pubblica, smontando stereotipi e preconcetti sulla detenzione?

Certamente. Tra i problemi principali del carcere c’è quello di essere un mondo chiuso. Quello che noi cerchiamo di fare da dieci anni è dunque mostrare l'altra faccia del carcere, quella umana. Quest’anno abbiamo scelto di aprire con un documentario che ci è piaciuto molto e che ha avuto una sola anteprima in Italia, al Festival dei Diritti Umani di Milano. Si tratta di Tehachapi, realizzato dall’artista francese JR all'interno della prigione di massima sicurezza di Tehachapi, in California. Un film estremamente commovente, che invita a riflettere su quanto l'arte possa essere una forza incredibile per cambiare le vite e costruire consapevolezza.

Il Festival si svolge sia dentro al carcere che fuori, è una rassegna diffusa.

Avremo due giornate dedicate completamente alla popolazione detenuta, con la restituzione di uno dei laboratori di scrittura creativa che abbiamo condotto quest'anno con gli scrittori Alessio Romano e Daniele Mencarelli. Ci sarà lo spettacolo di Andrea Pennacchi, e diversi momenti di formazione per filmmaker totalmente gratuiti.

Andrea Pennacchi, Alessandro Pittarella

E poi il vostro concorso nazionale di corti e film. Com’è cambiata la narrazione del carcere in questi anni, vista attraverso i lavori che partecipano?

Il carcere ha sempre rappresentato un mondo interessante per il cinema, perché misterioso, chiuso in sé stesso e dunque stimolante da raccontare. Purtroppo, negli anni, c’è stato un peggioramento. Non per il livello e la qualità dei lavori pervenuti, ma per la difficoltà crescente di raccontare una realtà che diventa sempre più chiusa rispetto al mondo esterno. Pensiamo a un film come Tutta colpa di Giuda, per la regia di Davide Ferrario, nostro presidente onorario. Lo abbiamo proiettato nel corso dell’edizione 2023, ma risale a circa vent’anni fa. Un film che oggi sarebbe impensabile girare, a cui parteciparono addirittura diversi agenti di Polizia Penitenziaria. Un grande set allestito tra le mura del carcere, in cui la troupe si mischiava alla popolazione detenuta e agli agenti. Un'opera realmente collettiva, che oggi sarebbe totalmente impensabile. 

Quando parliamo di detenzione non ci riferiamo solo alle carceri, ma anche altri luoghi come i cpr, in cui le persone vengono private della loro libertà personale e spesso a torto. Il Festival parla anche di loro e a loro.

Partiamo da un paradosso che ha sottolineato l’Asgi, (Associazione per gli Studi Giuridici sull'Immigrazione). Nel nostro paese vengono detenute anche persone che non hanno commesso reati penali, per esempio quelle prive di documenti regolari per poter permanere sul suolo italiano. Ne parleremo con Lorenzo Figoni e Luca Rondi di Altraeconomia, autori della bellissima inchiesta Gorgo cpr, che squarcia il velo sulle “galere per stranieri”. Veri e proprio gorghi in cui le persone scompaiono, vengono inghiottite in un limbo,dove sprofondano in situazioni di disagio psichiatrico grave. Persone che non parlano la lingua e che vengono imprigionate spesso senza capire le ragioni precise per cui si trovano lì dentro, né per quanto dovranno restarci. Le condizioni dei cpr nel nostro paese non sono lontanamente paragonabili a quelli delle carceri, nel senso che nei centri per il rimpatrio si vive in condizioni di degrado, in cui le persone dormono nello stesso luogo dove mangiano e dove espletano i loro bisogni fisiologici fondamentali. Sono luoghi in cui i diritti umani vengono sistematicamente violati, e questo non dovrebbe essere ammissibile in uno stato di diritto.