Il 5 febbraio del 1944 muore a Roma, a soli 35 anni, Leone Ginzburg. Nato ad Odessa, il giovane Leone si trasferisce negli anni Venti con la famiglia a Torino frequentando il liceo D’Azeglio. Compagno di studi di Sion Segre Amar, Giorgio Agosti e Norberto Bobbio (“La nostra classe - scriverà - o per lo meno alcuni di noi, avevano acquistato una speciale sensibilità (…) per la presenza di un giovane precocissimo, che aveva, a quindici anni - quando entrò al d’Azeglio come studente di prima liceo - tal vastità di cultura, tal maturità di giudizio e tal altezza di coscienza morale da suscitar meraviglia nei professori - e uno di quei professori lo ha chiamato discepolo maestro - e schietta ammirazione, senza invidia, nei compagni: parlo di Leone Ginzburg”), avrà come insegnanti Umberto Cosmo e Zino Zini, come amici Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, cui avrebbe ispirato la fondazione nel 1933 della casa editrice.

Dopo aver ottenuto la cittadinanza italiana nel 1931 aderisce al movimento Giustizia e Libertà e inizia a collaborare ai Quaderni di GL promuovendone anche la diffusione clandestina in nome di una opposizione radicale e intransigente al fascismo.

Arrestato il 13 marzo 1934, rilasciato nel 1936, proseguirà la sua attività letteraria e di antifascista, attività per la quale sarà nuovamente condannato al confino. Tra gli animatori della Resistenza a Roma, nuovamente catturato e incarcerato a Regina Coeli, sarà torturato dai tedeschi, rifiutando ogni forma di delazione o collaborazione. Morirà in carcere, in conseguenza delle torture subite, la mattina del 5 febbraio 1944.

“Mio padre - ricorderà il figlio Carlo - era finito in Italia un po’ per caso ma non tanto, perché suo padre naturale era ebreo di origini italiane e la famiglia aveva passato alcuni periodi di vacanza a Viareggio. Poi però aveva scelto di esserlo e questa decisione fu fondamentale nella costruzione della personalità intellettuale e del percorso politico”.

“Sandro Pertini - dirà ancora lo storico - ha scritto nella sua autobiografia Sei condanne e due evasioni che mio padre dopo l’interrogatorio, con il volto tumefatto, gli disse: non dobbiamo odiare i tedeschi. Perché questa questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La prima si riferisce alle sue convinzioni politiche per la costruzione di un’Europa federalista, in cui la Germania avrebbe naturalmente avuto un posto importante. La seconda è contenuta nell’ultima lettera scritta a mia madre e raccolta nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. In essa mio padre invitata al distacco e scriveva: “Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali di fronte al pericolo personale”.

Una lettera bellissima, una lettera d’amore nella quale pubblico e privato si intrecciano dando il senso della enorme levatura morale tanto del mittente quanto della destinataria.

Natalia cara, amore mio, ogni volta spero che non sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in genere; e così è anche oggi. Continua in me, dopo quasi una intera giornata trascorsa, il lieto eccitamento suscitatomi dalle tue notizie e dalla prova tangibile che mi vuoi così bene. Questo eccitamento non ha potuto essere cancellato neppure dall’inopinato incontro che abbiamo fatto oggi. Gli auspici, dunque, non sono lieti; ma pazienza. Comunque, se mi facessero partire non venirmi dietro in nessun caso. Sei molto più necessaria ai bambini, e soprattutto alla piccola. E io non avrei un’ora di pace se ti sapessi esposta chissà per quanto tempo a dei pericoli, che dovrebbero presto cessare per te, e non accrescersi a dismisura. So di quale conforto mi privo a questo modo; ma sarebbe un conforto avvelenato dal timore per te e dal rimorso verso i bambini. Del resto, bisogna continuare a sperare che finiremo col rivederci, e tante emozioni si comporranno e si smorzeranno nel ricordo, formando di sé un tutto diventato sopportabile e coerente. Ma parliamo d’altro. Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale. Cercherò di conseguenza di non parlarti di me, ma di te. La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di passaggio. (…) Come ti voglio bene, cara. Se ti perdessi, morirei volentieri. (Anche questa è una conclusione alla quale sono giunto negli ultimi tempi). Ma non voglio perderti, e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi perderò io. (…) Ti amo, ti bacio, amore mio. Ti amo con tutte le fibre dell’essere mio. Non ti preoccupare troppo per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero.

Ma Leone non tornerà. “Se cammini per strada - scriverà Natalia - nessuno ti è accanto Se hai paura nessuno ti prende per mano. E non è tua la strada, non è tua la città. Non è tua la città illuminata. La città illuminata è degli altri, degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali. Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra a guardare il silenzio, il giardino nel buio. Allora quando piangevi c’era la sua voce serena. Allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso. Ma il cancello che a sera s’apriva, resterà chiuso per sempre, e deserta è la tua giovinezza. Spento il fuoco, vuota la casa”.