Pubblichiamo parte dell’introduzione di Emiliano Sbaraglia, curatore del volume, a una nuova edizione della “Storia della colonna infame”, l’appendice manzoniana de “I Promessi Sposi” che attraverso una vicenda realmente accaduta durante la peste del 1630 a Milano si interroga su temi quali la pena, la tortura, la ricerca di un capro espiatorio, il senso rieducativo del carcere, trattati dallo scrittore recuperando in particolare “Dei delitti e delle pene”, il celebre scritto del nonno Cesare Beccaria, alla base del diritto moderno italiano ed europeo.

Come capitato ai più, I promessi sposi li ho apprezzati dopo: dopo la scuola, naturalmente. Ma la colpa è mia e non della scuola anche se, a dire il vero, la professoressa di turno non fu di grande aiuto.

Poi arriva l’università, la passione per la lettura si mescola al desiderio di letteratura, e le cose cambiano. Non solo le cose ma anche noi, insieme ai libri che scegli e a quelli che tornano, e che sembrano diversi rispetto a quando li hai letti per la prima volta. D’altronde è stato Italo Calvino a scrivere che “i classici sono quei libri di cui si sente dire di solito ‘Sto rileggendo’ e mai ‘Sto leggendo’ […]. Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono ‘di vaste letture’; non vale per la gioventù, età in cui l’incontro col mondo, coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro”.

Dopo il primo incontro, dunque, I promessi sposi sono tornati, e non era più l’opera da leggere obbligatoriamente per rendere omaggio a uno dei padri della storia della letteratura italiana. Rileggendo la storia di Renzo e Lucia, dei due “umili” scelti da Alessandro Manzoni per raccontare la Storia maiuscola, come d’incanto si entra in contatto con un altro mondo, e con una lingua che senti essere tua, quella che parli tutti i giorni, perché arriva proprio da lì.

Così è arrivato l’incontro anche con Storia della colonna infame, uno scritto che trova poco spazio nelle antologie, e quando lo trova è per ricordare di essere stata “appendice”: appendice, per l’appunto, dell’ultima edizione de I promessi sposi, anche se il suo certificato di nascita la colloca più indietro, quando viene concepita per far parte degli ultimi capitoli della prima stesura del Fermo e Lucia, mai pubblicata; ritenuta dal suo autore eccessivamente ampia per essere inserita nell’edizione de I promessi sposi del 1827, Manzoni però tiene troppo alla sua creatura per gettarla via a cuor leggero... …In quella del 1840, in coda al romanzo appare Storia della colonna infame, ricavandosi poi nel tempo autonoma collocazione. Manzoni ci tiene perché vuole approfondire non soltanto il tema della peste, ma tutti i rimandi politici e sociali che ne conseguono. L’intenzione, si intuisce sin dalle prime righe, è riprendere un argomento a lui caro, presente dal capitolo XXXII de I promessi sposi, e ben riassunto in un passaggio citato più volte negli anni, non ultimo Antonio Gramsci nei suoi Quaderni: “Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune”.

Ecco, la Storia della colonna infame, l’interesse che ancora suscita in noi, postmoderni alla deriva, credo sia strettamente legato a questa frase, in particolare allo sviluppo di tale riflessione offerta da Manzoni stesso ai lettori della sua opera. Per l’autore è proprio nello scarto tra buon senso e senso comune che deve essere ripensato l’avvenimento descritto e realmente accaduto nel 1630, quando la peste avvolge Milano durante il dominio spagnolo, provocando lutti e disperazione. Si tratta del processo e condanna a morte di alcune persone accusate di essere gli untori e dunque i colpevoli della diffusione della malattia nella città. Breve sintesi.

Lo scritto inizia da una data ben precisa, il 21 di giugno, per raccontare il chiacchiericcio di alcune donne, soprattutto di Caterina Rosa, convinta che a spargere l’unguento assassino sui muri delle strade in zona Porta Ticinese fosse stato, tra gli altri, tal Guglielmo Piazza, addetto al tribunale della Sanità. Piazza viene arrestato, interrogato e torturato fino al punto di chiamare in causa un altro innocente, il barbiere Giacomo Mora, anche lui arrestato a breve giro di posta. Torturato a sua volta insieme alla famiglia, Mora prima si autoaccusa, poi ritratta. Piazza invece tira fuori altri nomi, tra cui quello di Giovanni Padilla, figlio di un militare spagnolo in quel periodo molto influente a Milano. L’epilogo è noto: la folla chiede la testa dei presunti colpevoli, che vengono giustiziati pubblicamente attraverso il supplizio della ruota. L’unico ad essere assolto, come era prevedibile, è il figlio del militare spagnolo, che nei giorni delle indagini non aveva subito né pressioni, né torture.

Diversamente da Pietro Verri, che nelle sue Osservazioni sulla tortura (1777) si era già occupato della stessa storia, limitandosi a riflettere in particolare sulla pratica della tortura in quanto tale, strumento di inciviltà contenuto nelle norme legislative dell’epoca, Alessandro Manzoni cerca di andare più a fondo, e come ne I promessi sposi anche qui ci sollecita all’analisi dei comportamenti degli esseri umani, mettendo a confronto posizioni e scelte che possono determinare come atroce conseguenza l’ingiustizia perpetrata da alcune persone verso altre, nel caso specifico approfondendo la posizione dei giudici dell’inchiesta. In altri termini, è il tema del libero arbitrio quello su cui l’autore ci invita a riflettere, mantenendolo nel corso del suo scritto sotto speciale osservazione.

Buon sangue non mente, verrebbe da aggiungere, dato che conosciamo bene l’importanza dell’opera del nonno materno di Alessandro Manzoni, il marchese Cesare Beccaria, autore con Dei delitti e delle pene (1764) di un testo che getta le basi del diritto moderno, italiano ed europeo. Nelle pagine di presentazione ai lettori della sua opera, Beccaria scrive: “Tre sono le sorgenti dalle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convinzioni fittizie della società”…

…In Manzoni sembra esserci dell’altro, qualcosa di più profondo e destinato a riguardarci direttamente, che proviamo a cogliere attraverso una tra le oltre cento lettere inviate negli anni al suo amico francese Claude Fauriel, datata 29 maggio 1822, nella quale descrive il contesto storico ove collocherà il suo romanzo, già in fase di piena scrittura: “Le memorie che ci restano di quest’epoca presentano e fanno supporre una situazione straordinaria della società. Un governo il più arbitrario, commisto di anarchia feudale e anarchia popolare, un sistema legislativo per lo meno paradossale nei provvedimenti che emana, in quelli che lascia intravvedere o che suggerisce; un grado di ignoranza profonda, feroce e pretenziosa; classi sociali diverse, con interessi e principi opposti”.

Vi dice nulla? Senza troppe forzature, almeno credo, torna difficile non pensare ad alcune distorsioni della società in cui viviamo: alla giustizia labirintica che ancora (non) funziona a correnti alternate, facendo ricorso ancora troppo spesso a canali preferenziali; oppure alla frenesia social di questi tempi compressi, anch’essa posseduta da “ignoranza profonda, feroce e pretenziosa”. Se questa è la realtà in cui ci ritroviamo a vivere, allora dobbiamo cercare di comprenderla con una certa urgenza, scavando per bene, possibilmente nella giusta direzione…

…In questo libro abbiamo così cercato di ragionare insieme sul valore e il significato che può avere oggi l’istituzione carceraria in sé, per i minori ma non soltanto per loro; se ancora oggi il rapporto tra sanzione della pena e recupero del “colpevole” sia una ricerca in qualche modo virtuosa, con l’obiettivo di riabilitare un essere umano, o se invece i conti siano sommari e a pagarli, ieri come oggi, continuino a essere soltanto gli ultimi della fila, ultimi in ogni graduatoria sociale, troppo spesso sottoposti a trattamenti che solo di rado emergono alla luce del sole e troppo di rado salgono agli onori delle cronache, manifestando un retropensiero divenuto negli ultimi anni piuttosto diffuso: un senso comune, per l’appunto, intriso di pregiudizio, intolleranza, razzismo e classismo. Ma in una società civile, in una società democratica, nel suo doppio esercizio di custodia e trattamento un istituto penitenziario ha il compito di lavorare anche, se non soprattutto, per favorire il recupero e un nuovo inserimento del detenuto in un sistema sociale che dovrebbe vederlo finalmente attivo, partecipe, coinvolto. Accolto. Non lo dico io, ma la Costituzione italiana, nel terzo comma dell’articolo 27, quando afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Forse non ci siamo ancora tolti, dopo quasi quattro secoli dalla vicenda narrata, quel maledetto vizio di cercare, sempre e comunque, un capro espiatorio contro cui scagliarci, come rileva con la consueta lucidità Leonardo Sciascia nella sua introduzione dal titolo I burocrati del male, nell’edizione di Storia delia colonna infame pubblicata da Sellerio nel 1981. Per Sciascia la storia si ripete, e rischia di ripetersi: in condizioni di crisi, di una crisi politica e sociale, il rischio di nuove forme di dittature, di nuovi fascismi latenti che approfittano del momento per affidarsi a una giustizia sommaria così da accontentare il popolo-elettore, è sempre dietro l’angolo; e anche gli strumenti sono in fondo sempre quelli, legati all’ignoranza della maggioranza e a una informazione distorta, che oggi piace chiamare fake-news.

Questo scritto di Manzoni allora ci spinge anche verso un’altra direzione, un sentiero già battuto che dovremmo riprendere a percorrere: quello della conoscenza, intesa come acquisizione di nozioni utili a difendere libertà e diritti. propri e altrui. Anche perché, tra senso comune e buon senso, il mare da attraversare diventa sempre più grande. Sempre più profondo.