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Il tema delle disuguaglianze in Italia sembra essere oggetto allo stesso tempo di studi approfonditi e rimozioni intenzionali, soprattutto da parte di chi nelle istituzioni cerca di soffocare ulteriormente un fenomeno già di per sé sommerso, in particolare negli ultimi due decenni, quando le distanze economiche sono ulteriormente aumentate, pesando in maniera pressoché totale sulle spalle delle nuove generazioni.
Di questo abbiamo parlato con Giacomo Gabbuti, ricercatore in Storia economica presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, curatore del volume Non è giusta. L’Italia delle disuguaglianze (Laterza, pp. 200, euro 15)
Dove nasce l'esigenza di uno studio aggiornato sulle disuguaglianze in Italia?
Anche se un po’ meno di alcuni anni fa, di disuguaglianze continuiamo a sentir parlare molto spesso nel dibattito pubblico: ci viene detto che sarebbero in aumento, o in riduzione, grazie alle misure dei passati governi, o che un dato partito o proposta politica dovrebbero ridurle. Ma non è chiaro cosa s’intenda, a quali indicatori è necessario guardare, soprattutto che conseguenze hanno, e come si traduca tutto questo nelle nostre vite. Abbiamo quindi pensato fosse utile fare un punto, il più possibile chiaro e rigoroso.
Come è stato costruito il libro?
Nei diversi capitoli - che coprono ricchezza, lavoro, redditi, disuguaglianze di genere, mobilità sociale, la collocazione della situazione italiana in quella globale, e infine il legame, bidirezionale, tra disuguaglianze e cambiamento climatico - cerchiamo di selezionare alcuni indicatori chiave. Quanto pesa l’eredità nel nostro Paese? Quanto guadagna un manager rispetto a un operaio? Quanto si porta a casa l’1 per cento dei più ricchi? Chi inquina di più, e chi paga di più le conseguenze del cambiamento climatico? Oltre alle risposte a queste domande, che purtroppo non sono allegre, cerchiamo di offrire spiegazioni su come si misurano e i limiti dei dati, per contribuire a un dibattito informato sulle politiche per superare questa situazione.
Partendo da alcuni riferimenti citati, da Atkinson a Piketty, si evidenzia come il tema delle disuguaglianze sia stato trattato nel resto del mondo in questo secolo. Quali le differenze principali con la situazione italiana?
Sicuramente - ce lo spiegano gli affreschi di lungo periodo offerti da questi economisti - ci troviamo dentro un periodo in cui le disuguaglianze economiche stanno aumentando in quasi tutto il mondo, Stati Uniti su tutti. Alcune cose che raccontiamo nel libro sull’Italia, dalle “riforme” del lavoro alla sempre minore progressività delle imposte sui redditi e le successioni, sono comuni. Ma l’Italia ha le sue specificità.
Quali?
Intanto è un Paese in cui, dalla prima, dura recessione del 1992, il Pil è rimasto stagnante e i salari reali si sono persino ridotti, nonostante la relativa forza delle organizzazioni sindacali. In una prospettiva comparata è spaventosa la perdita di posizioni dei salari italiani, precipitate in tre decenni dai piani alti alla “classe media” della popolazione globale. Nel contempo è invece cresciuta la ricchezza: se nel “miracolo” valeva due volte il Pil, oggi siamo tra sette e otto volte, forse il rapporto più alto al mondo. Poi rimane scandalosamente bassa l’occupazione femminile, e anche le donne che lavorano lo fanno in posizioni peggiori, una subordinazione economica che permette e aggrava le violenze quotidiane di cui siamo testimoni colpevoli.
Nel secondo capitolo si parla di nuove classi sociali e delle conseguenti disuguaglianze salariali. Possiamo approfondire questo punto?
Il capitolo di Armanda Cetrulo e Maria Enrica Virgillito spiega come le classi, troppo velocemente archiviate nel dibattito pubblico, non sono mai sparite. Si potrebbe dire che vivono e lottano con noi, anche se purtroppo, lo diceva più di dieci anni fa Luciano Gallino, a combattere la lotta di classe è rimasta, sempre più feroce, solo quella dominante. Nei discorsi politici ormai sentiamo parlare solo di ‘classe media’, come se ne facessimo tutti parte, ma la classe operaia o lavoratrice continua a vivere condizioni ben diverse da quelle di chi è impiegato. Per fortuna, nonostante non andassero più di moda nella politica (anche quella di sinistra), nelle università è rimasto chi - come il compianto sociologo statunitense Eric Olin Wright - ha continuato a studiarle, affinando e aggiornando le lenti analitiche a una realtà che ovviamente cambia.
Il libro si avvale del contributo di numerosi studiosi, molti di loro giovani, alcuni dei quali si soffermano sul concetto di disuguaglianza tra le ultime generazioni, di genere, climatiche. Come avete lavorato insieme?
Devo assolutamente ringraziare le mie colleghe e colleghi - dodici, oltre a me, tra i 30 e poco più di 40 anni - per la grande disponibilità nel fare un lavoro veramente collettivo. Abbiamo discusso insieme i singoli capitoli e cercato, nelle differenze di temi e approcci, di offrire a lettrici e lettori un quadro coerente.
Quale realtà è emersa rispetto alla situazione degli under 30 nel nostro Paese?
Chi come me è nato negli anni Novanta ha vissuto solo stagnazione e recessione, mentre chi è nato dieci o venti anni dopo oggi ha prospettive ancora più precarie, salari ancora più bassi, e per andare via di casa dovrebbe permettersi affitti inconcepibili. Ecco perché non si può accettare chi si permette di fare la morale, e parlare di “merito” a ragazze e ragazzi che sanno perfettamente che la loro carta d’identità - l’anno di nascita, il sesso, il Comune di nascita - gioca un ruolo determinante nelle opportunità che avranno nella vita.