Tra le varie scritture di Fabio Geda, autore che sin dagli esordi ha raccontato la vocazione per determinati temi, in linea con la sua iniziale attività di educatore, quella del reportage narrativo mostra ancora una volta le sue peculiari attitudini grazie a La casa dell’attesa (Editori Laterza, pp. 166, euro 16).

Un libro che, pagina dopo pagina, diventa anche letteratura per la maniera attraverso cui l’autore immerge il lettore dentro una storia unica. Viaggiando in Angola, al seguito dell’organizzazione Medici con L’Africa Cuamm, Geda descrive non soltanto quanto vede, ma ciò che gli occhi del mondo dovrebbero tornare a guardare anche da lontano, un’umanità che sa ancora riconoscere il valore dei corpi, e della solidarietà reciproca.

Partiamo dalla genesi di questo libro. Come nasce?

Da una proposta arrivata direttamente da Giuseppe Laterza. Prima non conoscevo il Cuamm se non di nome, sapevo che si occupavano di salute nell’Africa subsahariana, ma non avevo avuto nulla a che fare con loro. Laterza mi ha chiamato per dirmi: “Guarda Fabio, abbiamo fatto amicizia con quest’organizzazione, ne sono scaturiti già due libri, ma vorremmo farne un terzo di tipo diverso, un reportage narrativo: andiamo a conoscerli?”.

E siete andati…

Sì, siamo andati a un incontro nella loro sede a Padova per vedere se scattava qualcosa, e qualcosa è scattato. Tra l’altro ero già stato con un'altra piccola onlus nel confine turco-siriano, ma non avevo voluto scrivere nulla, per trattenerla solo come mia esperienza personale. Quando poi è arrivata questa proposta ho pensato di metterla a frutto anche per un progetto editoriale, su temi a me cari, come la salute materna e infantile, e il lavoro “all’ultimo miglio”, in quei luoghi dove nessuno va.

In questo reportage narrativo, che è anche letterario, tra le tante figure di riferimento spicca quella di Agostinho Neto, in Italia non molto conosciuta.

Devo dire che quando tra i nove paesi dell’Africa subsahariana in cui opera il Cuamm ho scelto l’Angola, l’ho fatto anche perché mi sono reso conto che non ne sapevo quasi nulla, e poteva essere una bella occasione per mettermi a studiare la storia e la cultura di quel Paese. Così ho iniziato a studiare, e tra le prime figure naturalmente c’è Agostinho Neto, padre della patria, primo presidente dell’Angola indipendente nel 1975, ma soprattutto medico e poeta. Questo mi ha subito convinto: stavo per andare in Angola con dei medici e, anche se non sono poeta, la parola è comunque il mio campo da gioco. Allora ho pensato che potesse essere lui lo spirito-guida di quest’esperienza, un attivista anticoloniale politicamente impegnato, medico, che ha provato a fare attivismo anche attraverso la poesia.

Cosa ne è emerso?

In primo luogo direi la differenza che esiste tra curare e prendersi cura: curare è la capacità terapeutica nei confronti del reale, di cui si occupano i medici e nessun altro, mentre la letteratura può prendersi cura, può accudire e accompagnare le persone, gli eventi. In Agostinho Neto è come se avessi trovato un punto d’incontro tra “cura” e “prendersi cura”, grazie anche all’opera di Joyce Lussu, che va a trovarlo in carcere per trovare il modo di tradurre le sue poesie.

Che esperienza è stata invece trovarsi nella “Casa de Espera”, la casa dell’attesa del titolo?

Non mi ero mai trovato così direttamente a contatto con le contraddizioni della vita, che nel libro cerco di riassumere proprio attraverso il filtro dell’attesa. In questo ospedale donne e bambini arrivano da varie zone del Paese, nell’arco di pochi metri puoi trovare mamme per l’appunto in dolce attesa e mamme che attendono di passare la notte per vedere se il proprio figlio o la propria figlia sopravviveranno l’indomani. E non mi ero mai trovato a contatto con persone in grado di aspettare con tanta docilità per sapere quale sarà il proprio destino, famiglie comprese.

Famiglie?

Sì, perché offrendo assistenza ospedaliera pura, il resto rimane sulle spalle dei parenti, che si accampano intorno alla struttura, giorno e notte, per offrire quel sostegno che manca in termini di acqua, cibo, qualche cambio di vestiario, lenzuola. Tutto questo è stato un aspetto molto forte, una questione di corpi: ciò che mi ha colpito è la quantità dei corpi ammassati, e il lavoro dei medici corpo a corpo con il paziente. Una situazione medica ben diversa dalla nostra.

Diversa come?

Noi siamo abituati a ospedali molto ingegnerizzati, a macchine in cui in nostri corpi vengono infilati per essere osservati da medici superspecializzati: ma alla volte il corpo del medico e del paziente quasi non s’incontrano, mentre in questo ospedale impari il significato della semeiotica, che ha la stessa radice di semiotica, la lettura dei segni. Segni che possono variare da persona a persona, e che qui medici e infermieri son maestri nell’interpretare. Ma, come nel libro, non è mia intenzione romanticizzare: loro vorrebbero gli ospedali che abbiamo noi, nel frattempo, per cercare di curare, si attuano dinamiche diverse.

A tal proposito, tra le tante figure di medici, infermieri, volontari, specializzandi, occidentali e africani, emerge la figura di Felismina? Ne vogliamo parlare?

Lei è l’esempio migliore di come curare e prendersi cura sono due cose diverse, ma in certe persone trovano sintesi. Felismina è un’infermiera della piccola chirurgia, anche anestetista, di età indefinita. Una donna che ha cominciato a fare l’infermiera durante la guerra civile, e nell’ospedale si curavano le ferite dei combattimenti, in particolare tra i cubani filo-russi e i sudafricani filo-inglesi, quando una piccola parte di ‘guerra fredda’ arrivò anche in Africa, che in Angola tanto fredda non è stata.- Felismina è un esempio della capacità delle popolazioni dell’Africa subsahariana di curarsi di loro stessi, nella loro terra.

Quindi non esistono solo i migranti…

No, non ci sono solo quelli che scappano, anzi, sono una piccola, minuscola parte. La maggior parte resta nei propri territori e si dà da fare; esemplare il fatto che Felismina aprisse la sua casa vicina all’ospedale ai parenti delle pazienti, per far scaldare l’acqua, per riposare un po’. Così la casa dell’infermiera diventa luogo di accoglienza per le famiglie, famiglie che restano per prendersi cura dei propri cari, del proprio popolo.

Dopo un viaggio del genere, che sensazione si prova tornati in Occidente?

Una sensazione di disagio, mescolata però a una maggiore consapevolezza rispetto ai miei e nostri privilegi. Rientrando a casa la sensazione più stupida sarebbe quella di sentirsi in colpa per quanto accade nella situazione geopolitica, o per il fatto che la mia ricchezza della mia fetta di mondo sia dovuta al saccheggio di secoli di altre aree del mondo. Però posso esserne consapevole, consapevole delle mie fortune, dei miei privilegi, e mettere in atto forme di restituzione. Io, per esempio, non so se riuscirei a vivere lì, non penso neanche di essere utile vivendo lì, non sono medico, né ingegnere, o un imprenditore che porta investimenti. Con quello che so fare penso di essere più utile qui, diffondendo questa consapevolezza, quello che resta nelle mie tasche di quest’esperienza, convincendo più persone possibili di quanto possiamo fare quando rivolgiamo lo sguardo verso le aree più povere.