Ventisei film in concorso da tutto il mondo, tra cui dieci anteprime italiane e due mondiali, sei giorni di proiezioni, incontri con gli autori, masterclass, presentazioni di riviste, per guardare con occhi nuovi e linguaggi contemporanei al tema del lavoro. È il menu, più che ricco, della sesta edizione del Working Title Film Festival – Festival del cinema del lavoro, che torna finalmente in presenza, dopo un anno di pausa e l’edizione online del 2020. A ospitarlo, come sempre, la città di Vicenza, dal 9 al 14 maggio, nei tre principali spazi culturali della città: Cinema Odeon, Porto Burci e Caracol Olol Jackson.

A Marina Resta, direttrice artistica del festival, chiediamo: cos'è successo al cinema in questi tre lunghi anni?
I cinema sono stati costretti a lunghe chiusure e ad aperture con forti limitazioni, e questo ha influito negativamente sulla fidelizzazione del pubblico, che si è affievolita. Quest’anno si sta cercando di tornare alla normalità, ma i numeri del box office continuano a essere molto più bassi del periodo pre-pandemia. Probabilmente la cautela sull’utilizzo delle mascherine ha un senso, ma bisogna considerare che questo settore è stato sempre tra quelli in cui è prevalsa una maggiore cautela anche rispetto ad altri settori o luoghi che oggettivamente hanno un rischio di contagio maggiore. Questo per quanto riguarda le sale. Passando alla produzione, nonostante le oggettive difficoltà, ora si vive un momento di grande fermento dovuto anche ai contributi pubblici. Il paradosso è che tante nuove produzioni fanno ancora più fatica di prima a incontrare un pubblico.

Marina Resta, direttrice artistica WTFF

Un paradosso, ma anche una triste riconferma: le realtà più piccole e indipendenti pagano sempre il prezzo più alto nel mondo del lavoro. E a proposito di questo, il vostro festival interamente dedicato al tema del lavoro è una sfida. Man mano che gli anni passano è più facile o più difficile selezionare film costruiti intorno a questo argomento?
Ciclicamente capita che qualcuno mi chieda: “Quest’anno di cosa parla il festival?”, e che io mi ritrovi a ripetere: “Di lavoro”, nel senso che non ci interessa aggiungere ogni anno un’etichetta o un sotto-tema che rincorra l’attualità. In effetti, non vedo Working Title Film Festival come un festival “tematico”, anche se il requisito fondamentale per i film è che in qualche modo parlino di lavoro. L’intento è di andare oltre le rappresentazioni stereotipate, evitando i film costruiti "a tesi", offrendo più domande che risposte, anche se queste ultime sarebbero più rassicuranti. Il festival è nato infatti da due urgenze: una era appunto riflettere sui paradigmi del lavoro che sono in continua mutazione, l’altra era quella di compiere questa riflessione attraverso dei film esteticamente interessanti, privilegiando soprattutto il linguaggio del cinema del reale e le sperimentazioni, offrendo anche a un pubblico non specializzato stimoli nuovi.

Una sfida impegnativa.
La vera sfida è quella di fare un festival sul lavoro privilegiando sempre sguardi originali ed essendo pronti a sacrificare, in fase di selezione, anche dei film tecnicamente ben fatti e inerenti al tema, ma meno interessanti dal punto di vista del linguaggio cinematografico. Per rispondere alla domanda sulla selezione, c’è oggettivamente una doppia soglia di sbarramento: da un lato il tema, per quanto inteso in termini ampi come ho spiegato, esclude in partenza una larga fetta di produzioni; dall’altro non riusciamo ancora a intercettare produzioni medio-grandi, soprattutto se parliamo di lungometraggi, e in particolare quelli italiani, che privilegiano, comprensibilmente, festival più blasonati, soprattutto per le anteprime. D’altro canto, il lavoro coerente di questi anni ci ha permesso di creare una rete informale di filmmaker, scuole di cinema, produttori e distributori italiani e stranieri con cui siamo in sintonia, che spesso attuano un passaparola positivo e continuano a inviarci i loro nuovi progetti. Per esempio, in questa edizione abbiamo il piacere di proporre in prima visione italiana Globes, il nuovo lungometraggio documentario di Nina de Vroome, una giovane regista belga di cui avevamo già ospitato un cortometraggio alcuni anni fa. A sua volta, lei ci aveva conosciuto attraverso i filmmaker suoi conterranei Olivia Rochette e Gerard-Jan Claes, che avevano presentato il loro Grands Travaux, anche in quel caso in anteprima italiana, a Working Title Film Festival 2. Quest’anno il loro film Kind Hearts ha ricevuto un premio alla Berlinale.

A proposito degli stranieri, ventisei film in concorso da Paesi anche molto diversi tra loro, se pensiamo alla compresenza di Italia, Belgio, ma anche di Thailandia e Cina. Che ritratto collettivo del mondo del lavoro viene fuori? È possibile individuare dei filoni, delle direttrici comuni, che restituiscono l'idea del mondo globalizzato in cui viviamo, pur con storie raccontate dagli antipodi?
Uno è sicuramente la rielaborazione del Novecento, del fordismo e delle sue memorie – collettive e familiari – attraverso il sempre più diffuso riuso creativo di materiali provenienti da archivi pubblici e privati. Un altro è la compresenza conflittuale tra la modernità iper-capitalistica e le sovrastrutture culturali arcaiche, spesso sulla pelle delle donne, in particolare in alcune opere ambientate in Asia. E ancora, la condizione giovanile tra la ricerca di un lavoro in grado di dare senso e identità e la prosaica realtà fatta di prospettive precarie. Un altro filone è il racconto della relazione tra uomo e mondo animale. Una visione altrettanto laterale e rivelatrice è quella del lavoro artistico, con la compenetrazione inestricabile tra afflato creatore ed esercizio quotidiano, a cui ogni anno il festival torna a dedicare spazio.

Come si evince da quanto ha appena detto, nel racconto che il cinema fa del lavoro c'è una tendenza, che viene fuori anche dalla selezione del WTFF, ovvero quella a raccontare da un lato una contemporaneità iper-capitalistica e 4.0; dall'altro, la riscoperta di un mondo rurale, quasi arcaico, con un nuovo ritorno alla campagna, alla natura. È d'accordo con questa percezione? Secondo lei è più una questione di linguaggi estetici da esplorare o di mondi reali da raccontare? 
In effetti la selezione di questa edizione presenta un nutrito numero di opere che rappresentano il mondo rurale, e ce ne sono state proposte molte altre che per motivi diversi non abbiamo selezionato. Questo può essere in parte dovuto a una fascinazione estetica e poetica nei confronti di un mondo sempre più marginale ed “esotico”, e in parte a un rinnovato interesse della società verso il fenomeno del cosiddetto “ritorno alla terra”. Anche qui, però, è lo sguardo del regista a fare la differenza: per esempio, La distanza del collettivo Enece Film, attraverso l’osservazione della vita quotidiana di un gruppo di pastori di diverse generazioni, esplora le zone liminali tra i vasti territori industrializzati e le residue aree agricole periurbane della Lombardia. Una rappresentazione molto lontana dall’immaginario ingenuo dei cantori della campagna come un’arcadia priva di conflitti. All’opposto dello spettro del lavoro, anche le punte più avanzate del capitalismo digitale amano raccontarsi come operatori neutrali, impegnati in una corsa tecnologica per definizione positiva, a puro beneficio del progresso dell’umanità. Di fronte a questa rappresentazione così potente e pervasiva, c’è grande bisogno di film che facciano un lavoro di decostruzione dell’immaginario, andando per così dire ad “attraversare lo schermo” per vedere cosa c’è dietro. VO di Nicolas Gourault, in concorso in questa edizione nella sezione ExtraWorks, lo fa raccontando il lavoro degli “addestratori” di veicoli a guida autonoma, negli Stati Uniti. Si tratta di persone assunte per pochi soldi per restare sedute per ore sul sedile del passeggero, durante i viaggi di test in cui le auto guidate dall’intelligenza artificiale macinano chilometri per – letteralmente – imparare dagli ostacoli che incontrano lungo la strada. Un lavoro alienante che ha dei risvolti drammatici e paradossali: in caso d'incidente, di chi è la responsabilità legale e morale?

Un altro aspetto molto trattato del mondo del lavoro è la condizione giovanile e di una precarietà "stabile", radicata. Com'è cambiato il racconto che il cinema fa di questa dimensione, dai call center di Tutta la vita davanti ai rider di oggi? 
All’epoca di "Tutta la vita davanti", nel 2008, qualcuno poteva ancora pensare che la precarietà lavorativa fosse un fenomeno limitato ad alcuni settori, come appunto i call center. Che erano pur sempre luoghi fisici, uffici, dove c’era un capo e dove magari, a costo di duri sacrifici, si poteva anche aspirare a fare carriera. La differenza forse sta qui: il rider non vede i colleghi in alcun luogo fisico, il lavoro è governato da un algoritmo e, cosa non secondaria, la possibilità di salire nella piramide non è più presente, nemmeno come miraggio. Rue Garibaldi di Federico Francioni, in concorso tra i lungometraggi, è un documentario sulla precarietà lavorativa che è anche esistenziale. I giovani protagonisti Ines e Rafik, due fratelli, siciliani di origine tunisina emigrati nella periferia di Parigi, per resistere si aggrappano l'uno all’altra. Il film è quasi interamente girato in interni, nella loro piccola ma accogliente casa, e il lavoro, pur rimanendo sempre fuori campo, è molto presente in tutta la narrazione.

Il cinema oggi vive un momento molto complesso -tante sale hanno chiuso, molte produzioni indipendenti annaspano, attori e tecnici sopravvivono con redditi discontinui e inaccettabili - cosa serve al mercato dell'audiovisivo per ripartire?  
Servirebbe che questi lavori connessi al mondo dell’audiovisivo e, più in generale, dello spettacolo fossero innanzitutto riconosciuti, sia dalla società sia dai legislatori, come dei lavori veri e propri e non come delle “passioni”. Attualmente forse l’anello più debole della filiera è l’esercizio: ci vorrebbero delle politiche di incentivo per le sale cinematografiche che osano di più e propongono agli spettatori una pluralità di sguardi, per esempio offrendo film in lingua originale, produzioni indipendenti, film realizzati da donne, opere prime e incontri con gli autori, e che inventano nuovi modi per intercettare pubblici differenti. Bisogna poi iniziare a creare il pubblico di domani, perché quello delle sale oggi è anagraficamente molto anziano, e insegnare il linguaggio audiovisivo (e non solo con il linguaggio audiovisivo) fin dalle scuole di ordine inferiore, valorizzando le competenze degli insegnanti specializzati in questa disciplina, che esistono ma troppo spesso sono relegati nel migliore dei casi alla precarietà.

Working Title Film Festival, il programma completo.