“Il mondo della cultura e della letteratura è ancora chiuso alla classe operaia. Era più aperto negli anni Settanta (quando la conflittualità operaia portava i cosacchi ad abbeverarsi a San Pietro) ma si è rapidamente chiuso quando abbiamo cominciato a sentir predicato il mantra della ‘classe operaia che non esiste più’. Certo, oggi puoi diventare un autore pubblicato da una grande casa editrice anche se i tuoi genitori non hanno fatto l’università, ma devi dimostrare di essere un bel transfuga di classe”.

Con un tono di disillusione, lo scrittore Alberto Prunetti risponde alla nostra prima domanda riguardo a quanto sia aperto o chiuso, il mondo letterario italiano, alle autrici e agli autori della working class. Questo dialogo con Prunetti ruota attorno a un libro spagnolo da lui tradotto nella collana Working Class delle edizioni Alegre: Tea rooms di Luisa Carnés, del quale Collettiva pubblica un estratto. Prunetti è anche curatore della collana, ed è autore di una formidabile, imprescindibile trilogia del lavoro: Amianto una storia operaia (Agenzia X, 2012, poi Alegre, 2014); 108 metri (Laterza, 2018) e Nel girone dei bestemmiatori (Laterza, 2020).

“Però – precisa Prunetti riprendendo il discorso – ci sono segnali in senso opposto, per quanto tenui, e la collana Working Class è uno di questi segnali. Direi che la situazione è decisamente migliore nel Regno Unito, che ha una lunga tradizione di opere working class. Pensiamoci un attimo: il Booker Prize, uno dei premi letterari più importanti al mondo, è stato vinto nel 2020 da Shuggie Bain di Douglas Stuart, un romanzo ambientato nella Glasgow operaia. E tra i libri francesi più importanti del 2019 c’è À la ligne di Joseph Ponthus, operaio interinale nei macelli bretoni (un amico scomparso a 42 anni pochi mesi fa, purtroppo). Ma di sicuro sono segnali che non indicano una dimensione strutturale. Per avere trasformazioni strutturali, bisognerebbe che sempre più persone di estrazione sociale working class lavorassero nell’industria editoriale. Se gli editor non si riconoscono nelle storie che raccontiamo, se sono andati al ristorante solo come clienti e mai come camerieri, se i loro genitori non rischiavano di portarsi via una mano al lavoro, se in famiglia da piccoli non parlavano di scioperi e disoccupazione, poi sarà difficile che accettino di pubblicare le nostre storie di classe lavoratrice. Questo è il problema”.

Potresti descrivere la collana? La sua natura, i suoi titoli?

Proviamo a pubblicare opere di autori e autrici di estrazione sociale di classe lavoratrice, senza nascondere questo fatto. Nella grande editoria italiana, se pubblichi Trainspotting non dici che è un’opera working class (ma lo è): dici che è un romanzo sulla devianza giovanile. Lo incornici in un frame più vendibile, più accettabile, meno politico. Ma quella devianza era la norma della working class degli anni Novanta. Pertanto con la collana facciamo quel che la grande editoria non vuole più fare: alimentiamo un immaginario di classe lavoratrice. Il titolo che ancora mi fa venire la pelle d’oca è Chav, solidarietà coatta di D. Hunter, un lumpen di Nottingham passato attraverso tutte le istituzioni totali, che ci racconta i traumi del neoliberismo dal punto di vista di una persona Lgbtq di classe lavoratrice con una forza che trasforma ogni pagina in uno schiaffo.

Chi era Luisa Carnés, l’autrice di Tea rooms? E quale fu la sua parabola letteraria, umana e politica?

Luisa Carnés è stata una scrittrice spagnola autodidatta di estrazione sociale operaia attiva a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, un periodo molto turbolento della storia spagnola che poi ha portato a quell’incredibile rivoluzione che è stata la guerra civile del 1936. Fino a qualche anno fa l’opera di Carnés era rimasta in un cono d’ombra. Probabilmente l’oblio aveva a che fare con il suo esilio: in quanto antifascista, dopo la vittoria di Franco come milioni di altri spagnoli Carnés era stata costretta a espatriare, prima in Francia e poi in Messico, dove continuò a scrivere e a pubblicare le sue opere. Morì relativamente giovane, nel 1964, in un incidente stradale. Con la transizione alla democrazia la sua opera è rimasta ai margini del canone, fino a quando nel 2016 una piccola casa editrice asturiana di qualità, Hoja de Lata, ha ristampato Tea rooms. Il romanzo a quel punto è diventato un caso letterario, ha avuto una decina di ristampe, è stato accolto dalla nuova onda del femminismo spagnolo come un testo precursore del movimento delle donne.

Le protagoniste del romanzo sono tutte cameriere, o addette di un ristorante…

È un romanzo sulla ristorazione. Racconta le vicissitudini di un’addetta alla ristorazione in una sala da tè di Madrid degli anni Trenta, sulla base dell’esperienza dell’autrice. È quasi tutto ambientato in interni, perché se lavori in un ristorante non vedi mai la luce. Lasciami dire che io ci ho lavorato dieci anni nella ristorazione e posso dire che dai tempi di Tea rooms, dagli anni Trenta, non è cambiato quasi nulla… Son giorni che rifletto su quanti pochi libri siano ambientati nel mondo della ristorazione e mi sembra paradossale visto che nei ristoranti ci andiamo tutti. Solo che c’è chi ci va a mangiare e chi ci va a lavorare. E proprio da questa consapevolezza della linea divisoria tra la porta principale e l’entrata di servizio prende le mosse Tea rooms.

In effetti, leggendo Tea rooms, si resta colpiti dalla sua attualità. Peccato che non sia una buona notizia...

No, non è affatto una bella notizia. Anzi: nel romanzo si vedono sullo sfondo movimenti sindacali e sociali che coinvolgono con alcune difficoltà anche i lavoratori e le lavoratrici della ristorazione. Mentre adesso regna il potere arbitrario dei datori di lavoro, che hanno come modello l’impresa familiare e pensano paternalisticamente che i dipendenti siano “figli” che possono correggere e controllare. Siamo “tutti in famiglia”, tutti “sulla stessa barca”. E invece no, siamo a lavoro, ci sono contratti da rispettare e le parti datoriali e gli addetti e le addette alla ristorazione hanno interessi contrapposti.

Come si spiegano la freschezza, l'anticipazione letteraria e di temi, di un romanzo che risale agli anni Trenta del secolo scorso? Fu davvero un'epoca di avanguardia e libertà di parola, in Spagna, anche e soprattutto per le donne...

Direi proprio di sì. Proprio per le donne e non solo per le donne borghesi, anche per quelle proletarie. Altrimenti non si spiegano fenomeni come le Mujeres Libres, le miliziane antifasciste armate con la tuta blu da operaia che solcavano le strade di Barcellona durante la Guerra civile. Certo, la rivoluzione è un catalizzatore e acceleratore di energie sociali, ma da anni il fuoco dell’emancipazione e della lotta sociale covava sotto le ceneri in Spagna.

Il romanzo suggerisce una sottile affinità elettiva con Senza un soldo a Parigi e Londra di Orwell, non ti sembra?

Che gran libro Down and Out! L’ho letto in inglese mentre facevo lo sguattero nel Regno di Elisabetta II. Sì, concordo, anche perché appunto tra i pochi libri sulla ristorazione questo di Orwell è uno dei migliori. Direi che ci sono molte affinità, ma anche alcune divergenze sostanziali, perché sono diverse le motivazioni che portano Luisa Carnés e Eric Blair (ossia George Orwell) a lavorare in un ristorante. Carnés è una proletaria, ha lavorato come operaia nell’industria tessile, poi ha cominciato una timida carriera come giornalista e scrittrice. Ma quando finisce i soldi - dato che non ha capitale culturale, familiare e relazionale - deve vendere di nuovo la propria forza lavoro. Così, nonostante abbia già scritto e pubblicato delle opere di narrativa, viene assunta in una sala da tè di Madrid.

Mentre Orwell non era certo un proletario…

Infatti il caso di Orwell è diverso, in certo modo più estremo. Orwell appartiene alla parte bassa della sezione alta della classe media. Ha studiato a Eton (con una borsa di studio, va detto), è figlio di un funzionario coloniale, ha fatto un lavoro orribile nella polizia imperiale in Asia. Con la testa odia l’imperialismo e il potere e la ricchezza e sente di dover stare tra gli operai in quanto aspirante socialista, ma col corpo è tutta un’altra faccenda, perché ha un rifiuto fisico della classe operaia, dovuto all’educazione che ha ricevuto nel suo background familiare. Per abbattere questa barriera di classe sprofonda nell’abisso della working class, prima tra gli sguatteri di Parigi, poi tra gli homeless di Londra. Segue una pista iniziata da Jack London ne Il popolo dell’abisso e che tanti anni dopo sarà rielaborata da Günter Wallraff in Faccia da turco. Un po’ fa giornalismo undercover, un po’ sprofonda nella miseria vera quasi per espiare i propri natali in una classe abbastanza privilegiata. Diventa working class per scelta, badando bene di camuffare il suo accento, mentre Carnés non ha questo lusso: non può scegliere, lei è nata proletaria. Non deve camuffarsi: i suoi passi, la sua andatura, tutto dimostra la sua estrazione sociale proletaria.