Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto da Tea Rooms di Luisa Carnés, Edizioni Alegre. È un romanzo che deve essere letto da chiunque lavori o abbia lavorato in un ristorante. Tea rooms è stato scritto nella Spagna degli anni Trenta e da allora non è cambiato nulla nel mondo della ristorazione. Il romanzo dimostra che nella Spagna degli anni Trenta c’era una coscienza politica femminista impensabile nella cultura fascista dell’Italietta di quegli anni. Ed è stato proprio il fascismo di Franco a spegnere l’incendio delle rivendicazioni di genere delle donne spagnole come Luisa Carnés. Come ci spiega lo scrittore Alberto Prunetti, traduttore del romanzo, in questa intervista, Luisa Carnés è stata una scrittrice spagnola autodidatta di estrazione sociale operaia attiva a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso. Dopo la vittoria di Franco, come milioni di altri spagnoli, Carnés fu costretta a espatriare, prima in Francia e poi in Messico. Morì nel 1964. Da pochi anni, in Spagna, la sua opera è stata riscoperta. Tea Rooms è diventato un caso letterario.

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Oggi è stato proclamato lo sciopero dei camerieri, dei lavoratori di ristoranti e caffè e di altri esercizi della ristorazione. Quasi tutti i locali hanno alzato le saracinesche ma a lavorare sono andati quasi solo i proprietari e i loro familiari.

Gli scioperanti percorrono le strade e cercano di capire chi sono quei pochi camerieri saltuari che li sostituiscono al lavoro in qualche locale. Vigilano scrupolosamente per evitare che si faccia ricorso ai crumiri. Nella Calle Preciados due crumiri sono stati malmenati dagli scioperanti e sono dovute intervenire le forze dell’ordine. Nella Corredera Baja è stato assaltato un bar e il suo proprietario preso a schiaffi. In un altro caffè del centro lo specchio di una vetrina è stato mandato in frantumi.

Alle nove e mezza del mattino c’è una relativa calma nella sala da tè. I camerieri sono arrivati in orario ma sapendo che il crumiraggio viene punito hanno avuto dei dubbi prima di mettersi in divisa. Ma hanno subìto le minacce della responsabile:

«Siete liberi di fare quel che volete. Ma poi ne pagherete le conseguenze».

Dopo una breve riunione i camerieri hanno deciso di comune accordo di iniziare a lavorare.

«Se poi gli scioperanti ci obbligheranno, ce ne andremo in tutta tranquillità», dice Cañete, che sembra il capo del gruppo.

Cañete è molto preoccupato. Dopo il breve scambio di battute di ieri non ha più rivolto la parola alla responsabile.

La responsabile se ne sta al suo posto come sempre, dietro la cassa, col labbro superiore gonfio, più pallida e chiusa in sé stessa del solito.

I camerieri hanno cominciato a spazzare la sala. Le ragazze della pasticceria sembrano inquiete. Tremano a ogni minimo movimento proveniente da fuori. Soprattutto Antonia.

«Guarda un po’ se non possiamo neanche lavorare tranquille».

«E se vengono a tirarci fuori che facciamo?», chiede Laurita.

«Se vengono, dovremo andarcene», sostiene Matilde.

«Anche noi?».

«Certo».

Matilde pensa che i camerieri dovrebbero solidarizzare con il movimento anche senza la pressione degli scioperanti. Ma Antonia le ricorda la velata minaccia di licenziamento della responsabile.

«Chi più, chi meno, hanno tutti moglie e figli da mantenere».

«Sì, ma anche gli altri, quelli che scioperano, avranno moglie e figli».

Matilde auspica la solidarietà e l’unione tra i lavoratori. Senza l’unità della lotta non si ottiene nulla. Lo stesso vale per le richieste di aumento: alcuni sono solidali, altri no. E com’è tipico di queste situazioni, chi parla e rivendica qualcosa poi è quello che ha tutto da perdere. Così vanno le cose. «Solidarietà. Solidarietà e avanti». Sono parole di un vicino di casa disoccupato di Matilde.

«Sa quel che dice». E ha ragione da vendere.

«Per esempio noi, qui», dice Matilde, «passiamo la vita a lamentarci per la miseria che guadagniamo. Ma non ci impegniamo minimamente per guadagnare di più. Le cose non si ottengono lamentandoci a voce bassa. Serve solidarietà».

«Quel che dico io», ribatte Antonia, «è che ho sempre visto che quello che parla è quello che perde».

«D’accordo», replica Matilde. «Ma se ci si tutela iscrivendosi a un sindacato, se ci si unisce, allora si può esigere qualcosa».

«Ma i padroni non assumeranno quelli iscritti ai sindacati», interviene Laurita.

«Si, lo credo anch’io. Ma pensa se tutti, assolutamente tutti fossero sindacalizzati. Cosa potrebbero fare i padroni in tal caso?».

Laurita non contraddice Matilde. Non le viene in mente niente per risponderle, né le interessa pensarci. Si preoccupa dei «fatti suoi». Ieri sera il tipo galante del gruppetto degli attori le si è «quasi dichiarato». Lo ha fatto in maniera un po’ volgare che però a lei è parsa originalissima. Uscendo le ha lasciato una rivista di cinema e le ha detto: «Spero che la trovi interessante, signorina». Dentro c’era un biglietto da visita color nocciola, quasi trasparente. A matita era stata aggiunta una riga: «Quando potrò accompagnarla al cinema?». Questa proposta l’ha resa molto inquieta. Nella borsetta ha un bigliettino di risposta, color rosa, su cui ha scritto con molta attenzione: «Nelle prossime due settimane non abbiamo neanche un giorno libero. Se però lei non ha intenzione di cambiare idea...».

È soddisfatta dalla sua risposta ingegnosa. Soprattutto dal fatto di lasciare la frase in sospeso, e i puntini di sospensione le sembrano una novità originale. La prossima volta che l’attore verrà nella sala da tè gli restituirà la rivista dicendogli: «Grazie mille. La sua rivista mi è piaciuta molto». Non era soddisfatta dell’idea di scrivere solo «D’accordo». E per quanto si sia spremuta le meningi non le è venuto in mente niente di più brillante. «Ci manca solo che gli scioperanti ci facciano chiudere oggi pomeriggio e non possa restituirgli la rivista». Questa prospettiva la mette in apprensione, la innervosisce, si muove freneticamente da un lato all’altro del locale e dice frasi senza molto senso.

Antonia, mite e imbarazzata, non capisce molto delle osservazioni di Matilde, che le sembrano complicate e ingarbugliate. Non capisce questa cosa della «solidarietà». Ciò che capisce – per quel che la riguarda – è la parte sullo scarso salario che si guadagna nella sala da tè. Ma le parole della sua giovane compagna le sembrano ragionevoli.

«Sì, davvero...».

Antonia vuole bene a Matilde. Ne ammira le idee chiare, il coraggio e la franchezza che le hanno procurato fin dal primo giorno il rispetto della responsabile,

«Quella ranocchia!» (Antonia tende a dare soprannomi alla sua capa, anche più della vecchia donna delle pulizie).

Quanto a Marta, è abbastanza preoccupata per la vicenda della peseta di ieri e non pensa troppo allo sciopero. Farà quello che fanno le altre. Oggi quando è arrivata ha salutato Antonia con ansia. Se lei avesse ricambiato il saluto con freddezza avrebbe pensato che si era accorta della moneta. Ma Antonia l’ha accolta con un sorriso, cordiale come sempre. E le ha portato la “sua” bottiglia di latte. Ma Marta è ancora a disagio. Per assicurarsi che la mancanza della moneta non sia stata scoperta chiede ad Antonia: «Sei tu che fai i conti del giorno?», «Sì», «Di sera?», «Sì, prima di andarmene». Marta può stare tranquilla. E poi una peseta è facile da smarrire. Si può anche dare per sbaglio come resto a un cliente. Ci sono tanti modi per spiegarne l’assenza. Può stare assolutamente tranquilla. Ma non ci riesce. Ci vogliono due ore prima che inizi a rilassarsi.

È tutta la mattina che le ragazze parlano dello sciopero.

E lo stesso fanno i camerieri.

Verso le dodici l’orco compare inaspettatamente nella sala da tè. Entra di furia. Porta il cappello in mano, com’è sua abitudine. Senza salutare si rivolge alla responsabile:

«Ci sono novità?».

«No, don Fermín».

«Ho visto due o tre locali chiusi».

«Qui finora non è successo niente».

«Credo che abbiano anche rotto qualche vetrina. Vogliono ottenere tutto con la forza bruta».

Perlustra il locale con lo sguardo.

«Vado di sopra».

«Va bene, don Fermín».

La responsabile gli sorride in maniera servile e ripugnante.

Laurita non smette di pensare: «Se ci fanno chiudere, per me è una fregatura».

Verso l’una si presenta un gruppo di uomini davanti alla porta. Sono scioperanti? Si sentono parlare tra sé e sé, poi due di loro entrano nella sala da tè. Si rivolgono alla responsabile.

«Buongiorno. Chi è la persona responsabile di questo locale?».

«La responsabile sono io».

«Siamo venuti a invitarvi a unirvi allo sciopero».

«Il personale di questo locale non è sindacalizzato».

«Non importa. Si tratta di un atto collettivo di protesta per la detenzione di alcuni compagni. I nostri colleghi che non si dimostrano solidali, siano o meno sindacalizzati, saranno considerati crumiri».

Chi parla guarda i tre camerieri di turno, raggruppati nei pressi della cucina. Li sfida.

«Noi...».

Comincia a parlare Cañete.

La responsabile sale per avvisare l’orco di quel che sta accadendo.

Intanto gli scioperanti appena arrivati parlano con i camerieri.

I camerieri si dicono d’accordo con i compagni del sindacato, ma ognuno si mostra restio ad abbandonare il posto di lavoro. La paura di perdere anche quello scarso salario paralizza a tutti volontà e membra.

Le ragazze restano in attesa della decisione degli uomini, ma sembra che questi non arrivino a un accordo. Le loro parole arrivano al bancone della pasticceria in maniera confusa.

L’orco compare sulle scale, seguito dalla responsabile.

«Il mio personale non ha nulla a che vedere con lo sciopero, non sono sindacalizzati», grida.

«Bene», dice uno dei due operai. «Noi abbiamo compiuto il nostro dovere. Adesso vedrete».

Escono e si uniscono al gruppo che aspetta fuori.

Rimangono lì, appostati con aria minacciosa.

L’orco strilla ancora con la sua voce stridula:

«Esigo che i lavoratori siano presenti quando ne ho bisogno. Quindi siete avvertiti: chi abbandonerà il suo posto può considerarsi licenziato».

Si volta e sale verso il suo ufficio.

La responsabile torna al bancone e parla con Paca. I camerieri sono in fibrillazione.

«Non è giusto essere messi così in croce».

«È come pugnalarci».

«Bisogna scegliere se perdere il lavoro o farsi pestare», dice Cañete.

Ma a quel punto l’orco rispunta sulle scale. Grida:

«Andatevene tutti. E tornate domani».

«Anche le ragazze, don Fermín?», chiede la responsabile.

«Anche loro».

(«Che fregatura», pensa Laurita).

«Quindi chiudiamo, don Fermín?».

«Certo che si chiude. Volete che mi metta io a servire i clienti?».

La responsabile, umiliata, china la testa.

I camerieri vanno in cucina. Quando tornano indossano i propri abiti.

Le inservienti si cambiano nello stanzino.

Laurita è disgustata. Il bigliettino rosa dovrà rimanere nella sua borsetta per ancora molte ore (quante?). Marta adesso è tranquilla per la storia della peseta. E ora può pagarsi dieci biglietti dei mezzi da casa a lavoro, andata e ritorno.

Matilde cammina lentamente verso lo stanzino. Intanto si slaccia la cintola della divisa e l’arrotola. «Chi abbandonerà il suo posto può considerarsi licenziato». E tutte le teste si abbassano timorose, anche quelle invecchiate nel lavoro monotono e pesante della sala da tè, come Antonia, i cui diritti di sfruttata non sono affatto riconosciuti. Ha parlato il nemico, quello che si odia e si teme, ma di cui non si riesce a fare a meno. Parla con tono autoritario e superbo. Con la certezza di essere obbedito. Sicuro della sottomissione assoluta del suo personale. È lui che tiene in pugno ognuno di quei deboli individui, e con loro – poveri sfortunati – ogni bambino e ogni donna a loro vicini. È il nemico che talvolta arriva a fare un po’ di demagogia d’occasione: «Il padrone e l’operaio fanno parte di un solo corpo» (ma non tiene in conto che ciò che lui mangia nutre il suo corpo ma non quello dei dipendenti). Il nemico che vede nel corso degli anni – molti, in genere – incurvarsi quel loro corpo per la penuria e le umiliazioni, le tempie imbiancarsi e le membra marcire. «Non mi servi più». E ne prende un altro, lasciando lì quel povero corpo invecchiato

«Non mi servi più». Quello non è più il suo corpo. Se si fosse trattato davvero del suo corpo, del suo autentico corpo, e non di una metafora occasionale e vile, di una menzogna, il nemico avrebbe allora reagito in tutt’altro modo. Bah, non c’è niente di nuovo. Non lo ha detto solo il vicino disoccupato di Matilde, lo han detto nel corso dei secoli milioni e milioni di oppressi, in tutte le lingue e con ogni intonazione della voce. «Andatevene tutti. E tornate domani». Un sospiro, e i loro petti si alleggeriscono dall’angoscia. All’improvviso si prova gioia per aver portato un personale granello di sabbia alla causa della classe cui si appartiene. Già non si pensa più al fratello del sindacato come a un nemico che «ci fa pressione», che ci spinge alla fame o alla disoccupazione. Adesso è il compagno di strada, il nobile lottatore, il braccio del gigante nel cui cervello è scritto il destino di chi viene eternamente sfruttato. Sì, che bella cosa è la solidarietà. Viva la solidarietà! No. Siamo dei codardi. Non abbiamo fatto altro che seguire gli ordini del padrone. Obbedirgli fedelmente, come sempre. Fedelmente, come cani sporchi, come cani ripugnanti. Se lui non ci avesse ordinato di andarcene saremmo rimasti nel locale, avremmo tradito i nostri fratelli. Saremmo arrivati al punto di cacciare a pedate dal locale i nostri fratelli. Con la scusa che a casa abbiamo moglie e figli.

Le saracinesche metalliche delle vetrine scendono rumorosamente lungo le guide.

Fuori c’è il gruppo degli scioperanti. Quando gli inservienti della sala da tè compaiono in strada, i manifestanti lanciano alcuni prudenti slogan: viva la solidarietà, viva la fraternità proletaria.