Quello che segue è un estratto del volume di Laura Fano Morrissey Invisibili? Donne latinoamericane contro il neoliberismo, Ediesse, 2014.

Sono venuta a Roma nel febbraio di ventuno anni fa. Sono venuta perché mio fratello, che già si trovava qui, mi disse di venire perché c’era lavoro. Io in Perù lavoravo come professoressa, però lo stipendio era molto basso, di cinquantadue soles (13 euro). Con questo stipendio non potevo mantenere quattro figlie. Se non fosse stato per mio fratello, non sarei venuta perché non conoscevo nessun altro qui. Venni sola con un gruppo di persone che viaggiavano con passaporti da turista, circa ventitrè-ventiquattro persone.

Per pagare il viaggio ho dovuto dare il titolo della proprietà della casa in Perù agli organizzatori del viaggio e finché non avessi pagato il biglietto, non avrei potuto riavere indietro la proprietà della casa. Mio marito rimase nella mia casa con le quattro figlie. Mi ricordo che mio padre mi diceva di non andare, che il mio posto era accanto alle mie figlie, che la madre è la colonna vertebrale della famiglia. Non mi scorderò mai queste parole e ora credo che lui avesse ragione. Però ormai le cose sono fatte e non si possono cambiare.

In quel periodo in Perù c’era il terrorismo, gli stipendi erano molto bassi. Ma io venni soprattutto per far studiare le mie figlie. Lavorando lì non avrei potuto pagare i loro studi, perché studiavano in un collegio di monache che costava molto. La scuola pubblica non funzionava bene: i professori un giorno andavano, un giorno no. Non c’era controllo, c’erano perennemente scioperi, gli alunni stavano sempre per strada. A parte questo, però, la vita non era tanto difficile.

Se avessi avuto uno stipendio un po’ più alto non avrei sentito molto la povertà. Anche per quanto riguarda il terrorismo, non lo percepivo molto. Io andavo da casa a scuola e poi da scuola a casa. Il terrorismo era un fenomeno che si sentiva più in campagna, ha riguardato di più i contadini, molto poco nelle città. Solo una volta nella scuola dove lavoravo venne un signore con le mani legate chiedendo che gli dessimo da mangiare. I terroristi mandavano spesso dei loro prigionieri a chiedere da mangiare per verificare il grado di sensibilità della gente, ed eventualmente punire chi non fosse stato disposto ad aiutarli. È vero anche che ogni quindici giorni se ne andava la luce; i terroristi colpivano le torri di controllo con bombe e, anche se ciò succedeva fuori dalla città, gli effetti si sentivano anche in città. L’acqua invece per fortuna arrivava. La luce no, noi stavamo con le candele, le bambine studiavano a lume di candela. (...)

Quando sono venuta in Italia, la difficoltà maggiore è stata la lingua; anche abituarsi a un ambiente molto diverso e realizzare che la gente non si fidava l’una dell’altra. Per me era molto difficile non poter comunicare bene, però in realtà non ho mai avuto problemi con le persone. All’inizio vivevo in una stanza con altre venti persone in letti a castello. Sono stata lì due mesi, perché ancora non avevo il lavoro e mio fratello viveva lontano da Roma. Ed io a Roma non conoscevo nessuno. Poi, poco a poco, ho ottenuto un lavoro: stavo fissa da una signora. Più tardi iniziai anche a pulire la casa della figlia e del figlio e così sono andata avanti otto anni, finché non ottenni i documenti. Mai ho avuto problemi con le persone con cui lavoravo, forse per via del mio carattere: sono onesta e mi sono fatta sempre voler bene.

Per imparare l’italiano mi ci vollero cinque anni. Adesso faccio la portiera la mattina. Sono già dieci anni che lavoro come portiera! Le mie figlie sono venute qui dopo cinque anni. Io sono stata qui sola, lontana dalla mia famiglia per cinque anni, perché non avevo i documenti. Questo periodo iniziale è stato molto difficile, anche perché dovevo pagare tutto. Come mandare i soldi alla tua famiglia se ancora devi pagare i debiti con quelli che ti hanno fatto venire qui? Quando le mie figlie sono venute qui, le prime due avevano terminato la quinta delle medie, ma l’ultima no, aveva fatto solo la terza media purtroppo. Ma come facevo a lasciarla lì da sola?

La maggiore di tutte non venne perché già era sposata. Ma mia figlia piccola non potevo lasciarla con nessuno, mia madre ancora lavorava. Così purtroppo non ha potuto terminare gli studi. Io qui non avevo nessun appoggio: chi mi poteva aiutare per farla studiare? Così si misero a lavorare anche loro. Poi Janina, la più piccola, quando aveva diciassette anni conobbe l’uomo che sarebbe diventato il padre dei suoi figli e scappò con lui. La più grande trovò un lavoro fisso, il che era buono perché poteva dormire lì. (...)

Mio marito lavora, ha una stazione di benzina. Lui voleva venire qui, ma io non ho voluto perché la prima cosa che farebbe qui è cercare un’altra donna e bere. Già me l’ha fatto lì in Perù e non voglio che succeda di nuovo. Qui come farei a controllarlo? Quando lavoravo in Perù, lui tornava alle dieci di notte e che ne sapevo io con chi era stato e dove? Inoltre, qui sarebbe difficile per lui trovare lavoro. È più difficile per un uomo, all’uomo non piace pulire. Mio marito non ha mai fatto niente in casa, andava solo a fare la spesa perché era lui che guadagnava di più. Io facevo la cuoca, lavavo, facevo tutto in casa, però i soldi non li vedevo mai, neanche quelli che guadagnavo io. Questo è un errore della nostra cultura. Sono stata molto ingenua.

Mi sono sposata a venticinque anni e prima tutti i soldi che guadagnavo li davo a mia madre che li gestiva. Adesso penso che se rinascessi, dei miei soldi me ne occuperei io. Qui, lavorando e stando da sola, ho imparato a essere responsabile dei miei soldi.