L’emergenza pandemica ci ha posto quesiti le cui risposte non sono più procrastinabili, in virtù di una crisi mondiale di carattere economico ormai in essere da oltre un decennio, quando la cosiddetta “bolla” dei subprime statunitensi, tra il 2007 e il 2008 scoppiò deflagrando in ogni angolo del pianeta, contaminando il mondo dell’economia e, di conseguenza, quello del lavoro, provocando incertezze e diseguaglianze sempre crescenti.

Di questo e molto altro si occupa il libro pubblicato per L’asino d’oro edizioni dal titolo Lavoro e salari. Un punto di vista alternativo sulla crisi (pp. 279, € 18) della professoressa Antonella Stirati, titolare della cattedra di Economia politica presso il Dipartimento di Economia dell’Università “Roma Tre”, alla quale abbiamo rivolto alcune domande.

Professoressa Stirati, quali sono i macrotemi che affronta il suo scritto?

Vengono ben riassunti dal titolo. Ho cercato di approfondire il legame strettissimo tra le politiche macroeconomiche di bilancio pubblico e monetarie e i livelli di occupazione, e inoltre gli effetti di regolamentazione e deregolamentazione delle retribuzioni e dei contratti, e sulle condizioni del mondo del lavoro in generale.

Il volume raccoglie anche una serie di suoi interventi per diverse testate, che analizzano vari aspetti dell’economia e del lavoro a partire dal 2008. Cosa è cambiato in questi dieci anni?

Non è un caso che uno dei primi articoli del 2008, dedicato alla condizione economica dei lavoratori, riporti i risultati di un’indagine condotta all’epoca dalla Fiom su 100.000 lavoratori e lavoratrici metalmeccanici, operai e impiegati, e le loro condizioni di reddito individuale e familiare. Ecco, partendo da lì, nel corso del decennio successivo sino ad oggi possiamo riscontrare come le ulteriori trasformazioni siano state negative, e le condizioni dei lavoratori siano ancora peggiorate, in particolare dal punto di vista contrattuale.

In Italia già dalla metà degli anni Novanta sino al 2008 abbiamo registrato una crescita rallentata, che dal 2008 in poi subisce una crisi profonda, all’inizio di ordine mondiale, in seguito dovuta alle politiche europee ‘di austerità’, passando dal rallentamento alla caduta del reddito pro-capite e dell’occupazione. Nel 2019, a ridosso dell’emergenza sanitaria, ancora non avevamo recuperato i livelli di pil e di occupazione (misurata in numero di ore lavorate) del 2007... Quindi possiamo dire che in questo decennio e oltre abbiamo assistito a una grande riduzione di reddito pro-capite e a un peggioramento dell’occupazione con lavori brevi, saltuari, precari. Questa seconda recessione è stata caratterizzata inoltre da politiche di tagli alla sanità e alla scuola, politiche ‘di austerità’ restrittive, che hanno portato a una riduzione anche delle risorse destinate a servizi che sono i pilastri del nostro sistema di welfare. La deregolamentazione del mercato del lavoro ha toccato il suo apice nel Jobs act. L’ Italia ha visto poi aumentare i suoi problemi di elevato rapporto debito-pil proprio a causa delle politiche di austerità, che hanno determinato una forte diminuzione del PIL. Nel contesto delle istituzioni e delle regole di politica economica dell’Eurozona, ciò ha reso il paese ancora più vulnerabile rispetto a speculazioni sui mercati finanziari e rispetto ad altri paesi dell’Eurozona, diminuendone la forza contrattuale rispetto a paesi che spesso perseguono i propri interessi nazionali a scapito di altri partners (si pensi ad esempio ai paradisi fiscali)….

Nel volume lei insiste molto sull’importanza di un ritorno a politiche pubbliche che intervengano proprio in tema di lavoro e salari…

Da un lato credo siano imprescindibili per aumentare l’occupazione, e mi riferisco a politiche espansive di natura keynesiana, per intenderci, che intervengano sui livelli di occupazione, anche perché quando c’è una disoccupazione molto elevata, i lavoratori sono disposti ad accettare qualsiasi cosa, pur di lavorare, ed è quindi difficile migliorare le loro condizioni salariali e contrattuali. Quindi per prima cosa si dovrebbero creare delle buone opportunità di lavoro, per tutelare la dignità e i diritti dei lavoratori stessi.

C’è poi l’altro aspetto, riguardante la regolamentazione dei salari e dei contratti di lavoro. Oggi ad esempio si discute molto di salario minimo. Di fatto, se fissato a un livello troppo basso, il salario minimo potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio. Supponendo tuttavia un meccanismo di salario minimo che diminuisca la tendenza al ribasso, il timore potrebbe essere quello che, data la scarsa crescita della produttività, esso si riveli un problema in termini di competitività del Paese e cioè di capacità di esportare e di capacità di produrre all’interno (invece che importare) una quota rilevante dei beni di consumo e di investimento. Una preoccupazione non del tutto infondata in un contesto di moneta unica (in cui quindi il tasso di cambio con le altre monete non può essere modificato) e libera mobilità delle merci e dei capitali. Un’alternativa potrebbe essere costituita dall’imporre in sede Europea dei vincoli alla concorrenza basata sul contenimento o riduzione dei salari, una sorta di dumping salariale, simile al dumping fiscale, entrambi spesso utilizzati all’interno dell’Unione Europea. Purtroppo credo che sarebbe molto difficile far passare delle regole in questo senso in sede Europea, tuttavia credo che il tema andrebbe posto.

Vorrei tuttavia anche ricordare che negli ultimi decenni abbiamo assistito in media a un aumento dei profitti delle imprese, e questo fa sì che potrebbe esserci spazio anche per un aumento dei salari che non comporti un aumento dei prezzi (e non comprometta quindi la competitività internazionale delle merci e servizi prodotti in Italia). Naturalmente tutto da contrattare ma possibile: una redistribuzione del reddito per via salariale, non solo fiscale. Per quanto riguarda il nostro paese, dobbiamo poi tornare a confrontarci sulla regolamentazione del mercato del lavoro: a mio parere non è accettabile che si ammetta (come accade ora) un licenziamento individuale senza giusta causa, che è la conseguenza diretta di Jobs act e abolizione dell’articolo 18. In questo modo il lavoratore diventa estremamente vulnerabile, le sue capacità di contrattazione sulle norme di sicurezza o su altri aspetti delle condizioni di lavoro diventano pressoché inesistenti, mentre il potere ricattatorio delle imprese diviene enorme, favorito anche dalla elevata disoccupazione che aumenta il timore di venire licenziati.

Il libro arriva ai nostri giorni, all’evoluzione della crisi con l’emergenza sanitaria. Come si esce da questo periodo così complicato per tutti? 

La crisi pandemica ha aumentato la consapevolezza su alcune questioni. Penso in particolare alla sanità, rispetto alla quale i teorici di grido dell’economia oggi avrebbero qualche difficoltà nel dire, e nel far credere ai cittadini, che si debba fare come negli Stati Uniti, cioè privatizzare. Abbiamo invece capito quanto sia importante la sanità pubblica,  aumentare il numero di specializzandi e di medici, non mettersi a fare i conti della serva sui posti-letto, che è sempre meglio avere in eccesso rispetto alla normalità proprio per le emergenze, invece di tagliare come si è fatto negli anni passati. Si è capito che senza welfare, senza l’intervento dello Stato, la situazione sarebbe stata ben più drammatica. Credo che oggi più che mai alcuni discorsi, più ideologici che scientifici, non troverebbero presso gli Italiani molta accoglienza - certamente meno che in passato.

Quello che si riuscirà a fare concretamente dipende da una volontà politica spinta da una volontà popolare di migliorare e allargare il ruolo del settore pubblico, a partire dai servizi pubblici e della pubblica amministrazione. A furia di tagli e blocchi del turn-over, abbiamo pochi dipendenti. E’ stato stimato che se su questo ci confrontiamo con la Francia, per avere lo stesso rapporto con la popolazione, il loro numero dovrebbe aumentare di 2.000.000 di unità. Si noti che una crescita del genere, in un colpo solo,  risolverebbe anche gran parte del problema della disoccupazione italiana... Per migliorare la macchina pubblica abbiamo bisogno di personale in grado di gestire gli investimenti pubblici, il risparmio energetico in chiave ambientale, le nuove tecnologie, la digitalizzazione e di migliorare i servizi di sanità, scuola e ricerca. Ma servono soldi, e dunque il problema torna ad essere quello delle scelte di politica macroeconomica, e l’Europa in questo senso non aiuta molto. Ora abbiamo l’opportunità del Recovery Fund, ma nessuno ci regala nulla, sono soldi che dovremo restituire e comunque da spendere una tantum, non riguardano l’assunzione di personale, mentre noi abbiamo bisogno di intervenire anche su quello. In altre parole, se non ci si sgancia da certi meccanismi, legati in particolare al nostro debito pubblico, se non pensiamo a forme di monetizzazione del debito pubblico esistente, cioè quella che una volta veniva definita “sterilizzazione” del debito pubblico detenuto dalla Banca Centrale, sarà difficile risalire la china. Non si possono fare le nozze con i fichi secchi: non possiamo rilanciare l’economia in generale e il ruolo del settore pubblico senza crescita della spesa pubblica.