Un estratto da La dissolvenza del lavoro. Crisi e disoccupazione attraverso il cinema di Emanuele Di Nicola (edizioni Ediesse). Il libro, pubblicato nel 2019, è una mappa di come i registi di oggi trattano il tema del lavoro

Il film del nuovo millennio più stratificato, paradossale e beffardo sulla questione lavorativa poteva arrivare solo da Lars von Trier. Tra i cineasti più controversi del contemporaneo, il danese ha sempre imperniato la sua filmografia sul gusto per la provocazione, l’uscita dal luogo comune spaccando la comodità del banale, l’estremismo nella rappresentazione e la riflessione – spesso ironica e perfino sarcastica – sul senso stesso del raccontare una storia.

Esploso nella comunità cinematografica internazionale negli anni ’90 con la fondazione del movimento Dogma 95, insieme a Thomas Vinterberg, gradualmente si è imposto, ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes (Dancer in the Dark, 2000), è diventato regista chiave dell’oggi e certamente il più discusso, tanto amato quanto odiato, capace di produrre una divisione radicale tra gli ammiratori e i suoi critici.Nel 2006 si affaccia nella sale Il grande capo, che viene già fortemente connotato dal poster di presentazione: “Una commedia di Lars von Trier”. Se il danese ha frequentato molti generi, dal thriller all’horror passando per l’erotico, qui vuole essere chiaro fin da subito, siamo nel dispositivo comico. Il titolo originale è Direktøren for det hele, ovvero “Il capo di tutto questo”, con una sfumatura lievemente differente rispetto alla titolazione italiana. Ancora una volta, seppure applicandosi al nodo del lavoro, il regista scrive un meccanismo estremo fino all’assurdo. Basti dire che il film inizia con lo stesso von Trier riflesso in un vetro che introduce il racconto: “Questo è il mio riflesso, ma nel film non c’è bisogno di riflettere: è una commedia e come tale è innocua. Niente è pedagogia o formazione di coscienza”.

L’autore non vuole spiegare nulla, respinge ogni forma di cinema didattico e intavola subito un gioco con lo spettatore, rivolgendosi a lui direttamente: non c’è un messaggio in ciò che stiamo vedendo, dobbiamo solo abbandonarci al meccanismo.L’intreccio si apre con la figura di un attore disoccupato, Kristoffer (Jens Albinus), che viene ingaggiato da un altro uomo, Ravn (Peter Gantzler), con un compito singolare: dovrà interpretare il capo di un’azienda informatica che i dipendenti non hanno mai visto, per chiudere un accordo importante con una società islandese, la quale pretende la firma del proprietario in persona. È Ravn il vero capo dell’azienda: quando ha avviato l’attività non se l’è sentita di fare il presidente e ha preferito mescolarsi tra i dipendenti, fingendosi uno di loro. I lavoratori pensano che il proprietario sia un’entità lontana e assente, che nel corso degli anni comunica con loro solo attraverso le e-mail, inviate ad arte da Ravn attraverso un finto account. Solo adesso serve che il capo si mostri: Kristoffer sarà dunque il “grande capo” che si presenterà ai dipendenti e concluderà la transazione commerciale. Da questa premessa sintomatica risulta già evidente il congegno previsto da von Trier: c’è un uomo che si ritiene inadeguato al suo vero ruolo, dirigere un’impresa, e nel tempo ha scelto di fingersi dipendente inventando un capo invisibile. Così ha potuto stringere amicizia con i lavoratori, mettendosi sul loro stesso piano, e soprattutto ha scaricato la responsabilità per ogni decisione difficile, che grazie alla sua costruzione cervellotica può sempre attribuire a un proprietario assente, di cui si dice solo portavoce. Il luogo di lavoro viene inteso come rappresentazione, gioco di ruoli in cui si può perfino costruire un personaggio finto, mai visto, a cui tutti credono senza dubbi particolari.

Kristoffer accetta di interpretare il capo e inizia la rappresentazione: si presenta ai lavoratori, fa riunioni con loro. L’attore, che si ispira al fantomatico drammaturgo Gambini (di invenzione) come suo personale Stanislavskij, è costretto a trattare approfonditamente materie che non conosce affatto. Non sa niente di informatica quindi, davanti alle domande dei dipendenti, prova a svicolare attraverso frasi fatte, esercizi di vuota retorica e avvitamenti grotteschi. Uno per tutti, quando un dipendente gli chiede cosa intenda lui per “sviluppo agile” il grande capo non dà una definizione, anzi teorizza perfino la necessità di evitarla: “Definire è decretare”, dice. I lavoratori ci credono, lo assumono come valido, sono anche critici nei suoi confronti ma d’altronde è sempre difficile contraddire il capo. Lo stesso principio vale per noi che guardiamo: non ci viene mai detto cosa vende l’azienda, si occupa genericamente di informatica, vediamo queste persone in ufficio a fare meeting o esaminare risultati ma non sarà mai chiaro cosa producono. Non interessa al regista: nell’ingranaggio non rileva l’oggetto del lavoro (può essere qualsiasi cosa), ma solo l’insania e la follia riposta nel concetto stesso di lavorare. Per questo l’ufficio viene dipinto come un ricettacolo di ossessioni, fissazioni, piccole e grandi fisime. I dipendenti sono mediamente pazzi, ognuno porta i propri disturbi al lavoro.

Tra tutti si distingue il personaggio di Gorm (Casper Christensen), affetto da una depressione rurale che si traduce in scatti violenti ogni volta che è in disaccordo con l’interlocutore. “L’inverno in campagna è soffocante, molto soffocante” ripete come un mantra, prima di aggredire chi gli sta davanti. Ma non è il solo: c’è un’impiegata che scoppia a piangere in ogni minima situazione, un’altra che vuole sedurre il grande capo perché ha scambiato le sue mail per un gioco erotico. C’è un lavoratore straniero che non conosce il danese, quindi non può esprimersi; un’altra ancora ha è certa che il grande capo la sposerà perché gliel’ha promesso in una mail. A complicare ulteriormente la situazione infatti il vero capo ha scritto ai dipendenti e-mail sempre diverse, personalizzate, che escono dal rapporto lavorativo ed entrano nel personale; ognuno è convinto di avere un rapporto peculiare con il presidente, e l’attore deve gestire la complessa situazione. Von Trier innesca un ulteriore meccanismo comico imperniato sulla rivalità storica tra Danimarca e Islanda: al tavolo della trattativa, mentre preparano l’intesa commerciale, le parti si beccano a vicenda a causa dell’atavico contrasto, col presidente islandese Finnur (interpretato da uno straripante Friðrik Þór Friðriksson) che a più riprese si lamenta dell’incapacità dei danesi di vivere e lavorare. Nella controversa vicenda arriva poi un nuovo colpo di scena: l’accordo da firmare è in realtà la vendita della società, con licenziamento di tutti i dipendenti. Il vero capo non ha avuto il coraggio di dirlo, così ha assunto un capo fittizio per assumersi la responsabilità. Ma quando la situazione precipita anche l’attore Kristoffer rifiuta di restare col cerino in mano: si inventa di avere a sua volta un capo, lui è solo un emissario, dietro c’è “il grande capo del grande capo”.

Di paradosso in paradosso, in un congegno a scatole cinesi, la situazione precipita in modo sempre più irresistibile: i rapporti di lavoro vengono messi in parodia e fatti a brandelli, con genialità e cinismo, come nell’allusione al dipendente licenziato che si è impiccato con il cavo della fotocopiatrice. Alla fine il vero capo è costretto a confessare ma, incredibilmente, sarà ancora l’attore a firmare l’intesa, ormai è sua la procura e lui non uscirà più dal personaggio. Nell’accordo di cessione prima Kristoffer inizia a contestare l’impaginazione del testo, poi vuole riscrivere la cifra e chiede 50 centesimi in più: “Hanno un valore simbolico, così come uomo d’affari avrò guadagnato qualcosa”. Il grande capo è il divertissement scatenato di un grande autore, in cui è vietato cercare una morale, occorre lasciarsi andare al flusso caustico della commedia. In questa i rapporti del lavoro vengono illuminati da una luce inedita, sottolineando il loro lato assurdo e ridicolo, tanto grottesco quanto esilarante.

Nella trovata del grande capo non è difficile riconoscere il regista, colui che sul set tutto comanda e decide come all’interno di un’azienda. Il lavoro è un teatro in cui entrano o escono vari personaggi, tutti sono ostaggi delle proprie ossessioni, ogni stranezza diventa credibile. Non è casuale che ciò avvenga in Danimarca, nel cuore del modello nordico, storicamente lodato e indicato come esempio, che von Trier naturalmente si diverte a distruggere. Il regista ha girato il film con una nuova tecnica di ripresa, l’automavision, ovvero una camera fissa senza alcun operatore che la dirige, dove ogni inquadratura viene decisa dal computer, introducendo così l’elemento della casualità nella scelta dei piani. Guardando il film, però, nel suo risultato stilistico appare evidente l’intervento del cineasta, proponendo anche la modalità di ripresa “casuale” come l’ennesimo scherzo di Lars von Trier. Al di là di tutto, piaccia o meno, accolto o respinto, resta uno dei racconti più originali sulle dinamiche del lavoro, che non somiglia a nessun altro ed è impossibile da replicare.