La Cgil torna a proporre la tassa dell’1,3 per cento sui super-ricchi con oltre due milioni di patrimonio. Si riapre così il dibattito sull’opportunità di quella che da sempre viene chiamata “patrimoniale”, con un forte impatto anche sui cittadini del ceto medio, che comunque non verrebbero mai intaccati da tale imposta.

Si tratta quindi di una sorta di tabù per il nostro Paese, come sostiene Misha Maslennikov, econometrista e analista di policy di Oxfam Italia, la ong che si batte contro disuguaglianze, povertà e ingiustizia e impegnata nella campagna internazionale “Tax the rich”.

Perché l’imposta sulle grandi ricchezze è ed è sempre stato un tabù per gli italiani?
Una cosa di cui ci si dimentica troppo spesso è che negli anni Settanta ci fu la riforma tributaria Cosciani che forniva una direzione molto chiara per il legislatore: affiancare all’imposta generale sui redditi un’imposta patrimoniale, ordinaria e proporzionale sui valori effettivi dei cespiti mobiliari e immobiliari, con l’obiettivo di attuare quella che gli economisti chiamano “qualificazione qualitativa dei redditi”.

Parliamo, dunque, di un’attenzione alle componenti patrimoniali della capacità contributiva…
Un’attenzione che da allora è sempre mancata. Siamo un Paese in cui la discussione pubblica considera questo tema un vero tabùm ancor prima di parlare di imposta patrimoniale. È chiaro che ci ritroviamo nella situazione paradossale in cui un contribuente ricchissimo dal punto di vista patrimoniale, che però non mette a frutto il proprio patrimonio, viene messo sullo stesso piano di un disoccupato e nullatenente.

Una disparità che sembrerebbe evidente. 
La loro rispettiva forza economica, infatti, è però diversa. Il più ricco può mettere a disposizione e utilizzare la propria ricchezza come collaterale, ad esempio per andare a chiedere un prestito in banca e finanziare le proprie spese. Un povero non può fare altrettanto perché non può fornire garanzie e così non può ottenere denaro per delle spese essenziali, ma nemmeno per tentare di aprire un’attività lavorativa imprenditoriale.

Possiamo quindi parlare di un fisco che produce disuguaglianze?
Vi è infatti l’altro paradosso, che vede chi non contribuisce allo Stato proporzionalmente alle proprie possibilità (evasori fiscali o elusori, ndr) beneficiare dell’assistenza sanitaria gratuita, dei mezzi di trasporto pubblici a buon mercato, della scuola pubblica, e di tutti gli altri servizi pubblici nella stessa misura di chi invece paga regolarmente le tasse.

C’è poi la questione immobiliare
Viene spesso sollevata l’obiezione, infatti, secondo la quale, se il patrimonio è fatto anche di tanti immobili, su quelli comunque, a partire dalla seconda casa, graverebbe l’Imu. È vero, ma è altrettanto vero che viviamo in un’epoca in cui i più ricchi sono anche in grado di strutturare i propri patrimoni in modo tale che generino poco reddito tassabile e che la tassazione sulle rendite è inferiore a quella sul lavoro.

Un esempio?
Se sono proprietari di grandi imprese possono controllarle in modo non diretto, come azionisti, attraverso società, strutture, holding familiari e così via. Se la grande impresa distribuisce dividendi, questi non affluiscono alla persona fisica, ma alla holding; finché rimangono lì, in cassaforte, di nuovo possono essere usati come collaterali. Pensiamo a Musk che ha comprato Twitter usando come collaterale le proprie azioni. Inoltre i super ricchi, anche qualora controllino direttamente le imprese, possono benissimo chiedere, come è stato il caso di Amazon, alle imprese semplicemente di tenere soldi in cassa quindi non elargire dividendi.

Ci sono studi in materia?
Quello che si osserva con studi empirici delle università Sant’Anna e Bicocca su molti Paesi come Stati Uniti, Francia, Paesi Bassi, Norvegia, Brasile, è che i contribuenti più ricchi, in termini reddituali o patrimoniali, contribuiscono non in termini assoluti ma in proporzione alla propria capacità contributiva con minori imposte dirette e indirette. In Italia complessivamente, non parliamo solo di Irpef, i ricchi sono sottoposti a una contribuzione inferiore a quella di un infermiere, un insegnante, di gruppi di cittadini con redditi più modesti e patrimoni più esigui.

Questo chiaramente è in stretto contrasto con quelle che sono le prescrizioni e le caratteristiche del nostro patto di cittadinanza che ci è stato lasciato dai padri costituenti e che richiede una progressività nel prelievo fiscale, che deve aumentare in proporzione, così da avere granai di denaro privato cui attingere nei momenti di necessità. In epoca moderna, la mancata realizzazione di questi princìpi vuol dire crisi.

Un gruppo di economisti italiani, in un documento, ha proposto misure correttive del sistema: quali sono?
Noi dobbiamo correggere questa distorsione, che si chiama regressività, al vertice del nostro sistema fiscale. Alcuni interventi li abbiamo strutturati nel “Manifesto degli economisti italiani” per l’agenda Tax the rich. Questa non è solamente un’imposta sui grandi patrimoni, ma ambisce a rendere il sistema più progressivo, garantendo maggiore equità al prelievo attraverso interventi che facciano contribuire maggiormente i ricchi e, nello stesso tempo, generare la potenzialità di misure che producono risorse che possono essere utilizzate dall’operatore pubblico, riequilibrando complessivamente i carichi fiscali nel nostro sistema a partire della detassazione del lavoro.

La destra, però, racconta tutt’altro...
La narrativa della destra parla di un’indiscriminata diminuzione del prelievo per tutti, noi di un riequilibrio complessivo del prelievo, anche perché ci troviamo in un’epoca in cui la quota del lavoro sul Pil è in calo, mentre sale quella dei profitti. Il contributo dei profitti però, fatto 100 il gettito fiscale, è tre volte inferiore a quello del lavoro, nonostante le quote sul Pil mostrino altre proporzioni.

Le entrate derivanti dalle modifiche proposte da voi, ma anche dalla Cgil, dove potrebbero confluire?
Le risorse che gli interventi ‘tax rich’ possono generare, tra cui un’imposta sui grandi patrimoni, possono essere utilizzate per bisogni sociali crescenti, per il contrasto ai cambiamenti climatici, per accompagnare una transizione ecologica giusta, per politiche di investimenti in istruzione e sanità cui sono associati i diritti costituzionalmente garantiti.

A chi si applicherebbe la vostra proposta?
Nel caso di Oxfam, ma ci sono similitudini con la proposta della Cgil, il progetto non riguarda il 99,9 per cento dei contribuenti italiani. È un’imposta progressiva che si applica allo 0,1 per cento dei contribuenti, ossia coloro che hanno proprietà dai 5,4 milioni di euro in su, con aliquote progressive, simili a quelle applicate in Spagna da cinquant’anni. L’aliquota massima scatterebbe sopra i 21 milioni di euro.

Corre rischi di ulteriore tassazione chi ha magari una prima casa, un appartamento al mare e un centinaio di migliaia di euro in banca?
Quando si dice che è una tassa sulla classe media si sta dicendo una fandonia: stiamo parlando dello 0,1 per cento dei contribuenti italiani. Una simile tassazione porterebbe entrate che andrebbero dai 13 ai 16 miliardi di euro all'anno, una cifra che si avvicina al valore della legge di bilancio 2026 di 18,7 miliardi.

Un'altra cosa che emerge nel dibattito pubblico è che, affinché l'imposta sia effettiva e quel gettito si realizzi, bisogna introdurre e disegnare seri presìdi anti-abuso. Si contesta sempre che, a fronte di una tassa sui grandi patrimoni, i beni verrebbero spostati all’estero, lontano dall’occhio vigile dell’autorità fiscale italiana. Vero, questo è possibile, ma innanzitutto noi chiediamo che la base imponibile sia il patrimonio globale, ovunque esso si si trovi.

Non crede che il rischio di fughe di capitali all’estero sarebbe reale?
Evidenze su fughe ed espatri fiscali sono aneddotiche nella letteratura e non sono state mai esaminate. Ma anche se si cambia residenza fiscale, non necessariamente si recide la presenza economica con il Paese che si è abbandonato e nel quale si può continuare a operare. Inoltre, negli ultimi anni i progressi nella cooperazione fiscale internazionale hanno fatto passi da gigante e ancora bisogna rafforzare queste misure di trasparenza, includendo per esempio nello scambio d’informazioni i beni immobili.

Come affrontare, dunque, il rischio di fuga?
Lo si può tamponare e affrontare in modo adeguato imponendo una exit taxation per chi si trasferisce, con il pagamento di una plusvalenza o un’imposta con aliquota elevata, oppure si può continuare a considerare chi porta fuori dall’Italia i propri capitali come un residente fiscale del Paese abbandonato. Questo i cittadini dovrebbero capirlo: se sei un ricco e fuggi, ma hai costruito le tue fortune nel tuo Paese, lo hai fatto anche grazie alla forza lavoro qualificata che ha avuto un’istruzione finanziata dal pubblico, e lo stesso vale per il sistema sanitario e le infrastrutture.

C’è chi sostiene che una tassa patrimoniale disincentiverebbe la crescita: vi sono delle ragioni?
La letteratura mostra che i redditi da capitale possono essere tassati a livelli molto più elevati di quelli che vediamo attualmente nei Paesi occidentali senza che questo crei distorsioni, quindi le tasse sui super-riccchi non impatterebbero sulla crescita. C'è poi chi usa nel dibattito pubblico l’argomento della doppia tassazione, dicendo che non si può tassare la ricchezza costruita a partire da risorse e redditi già tassati.

La risposta è che i sistemi fiscali sono pieni di esempi di doppia tassazione: quando vado al supermercato o a fare rifornimento di gpl non dovrei versare l’Iva fino al 22 per cento e le accise, visto che si tratta di risorse già assoggettate a tassazione diretta.

È stucchevole invece vedere che la destra, pur di non parlare e non affrontare di petto questi temi, si stia trincerando dietro la menzogna della patrimoniale generalizzata e dietro la disquisizione sugli impatti che l'intervento sull’Irpef in legge di bilancio produrrebbe beneficiando i contribuenti che, secondo la destra, ricchi non sono. Sono considerazioni che in realtà sviano il dibattito pubblico.