“Partiamo da valori fondamentali della Repubblica della la Costituzione. Votare No per noi è un obbligo, non una scelta. Ci riteniamo obbligati a farlo perché il nostro statuto dice con molta chiarezza che uno degli obiettivi è difendere la Costituzione nello spirito in cui è stata approvata, per noi è un imperativo categorico”. A dirlo è il presidente dell'Anpi Carlo Smuraglia in apertura dalle staffetta per il No organizzata dall'associazione dei partigiani in collaborazione con RadioArticolo1.

Due giorni in diretta streaming dalle 9 alle 20 che si concluderanno domani (25 novembre) con la manifestazione nazionale al Teatro Brancaccio di Roma. Previsti collegamenti con le sedi Anpi di tutta Italia e l'intervento di costituzionalisti, artisti e rappresentanti di associazioni tra cui Ugo De Siervo, Maurizio Landini, Moni Ovadia, Guido Calvi e Tomaso Montanari. Al Brancaccio prenderanno la parola, oltre a Carlo Smuraglia, anche Susanna Camusso, Alessandro Pace, Francesca Chiavacci e Sandra Bonsanti.

“Se c'è lo stravolgimento della Carta – insiste Smuraglia – noi dobbiamo intervenire. Dopo una lunga discussione votata dal congresso ci siamo schierati a modo nostro, con la nostra autonomia e le nostre bandiere. La battaglia – aggiunge – si sta svolgendo in tutta Italia con grandissima partecipazione e abbiamo instaurato anche una collaborazione con la Cgil e con l'Arci. Stiamo facendo parecchie iniziative insieme”.

La staffetta via streaming “deve segnare l'impegno anche per ribadire che il combinato disposto tra la legge elettorale e il nuovo Senato è un vulnus che toglie rappresentanza ai cittadini. I danni sarebbero notevoli, sia per il nostro sistema politico sia per decisioni future. Con il No – conclude – indicheremo con forza che la Costituzione va trattata con estrema cautela e potremo finalmente metterci tutti insieme per cercare di attuarla nelle parti in cui non è mai stata attuata, come la scuola e il lavoro”.

Gaetano Azzariti: con il Sì peggiora l'assetto democratico
“È evidente che cambiare 47 articoli influisce sull'assetto democratico del Paese. A mio modo di vedere, in peggio. Votare No non significa essere conservatori, è invece la riforma a essere conservatrice perché aggrava il lento regresso dell'Italia e stabilizza la verticalizzazione del potere”. Così il costituzionalista Gaetano Azzariti. “Ho l'impressione che il sistema politico, non riuscendo ad attuare i principi costituzionali, pensiamo per esempio alle devastanti politiche sul lavoro, rifletta la propria impotenza su difetti costituzionali. Forse si dovrebbe parlare di più dell'incapacità della politica di rispondere alle esigenze sociali. Accozzaglia – aggiunge ironicamente Azzariti riferendosi al termine usato da Renzi per definire il fronte del No – è forse il nuovo conio per dire pluralismo. Mentre un tempo la diversità di opinioni era un valore, oggi essere in dissenso con il sovrano, metaforicamente parlando, appare improprio. Al di là delle battute, sono perplesso e anche un poco scocciato dalla volgarità di questa campagna elettorale, è inaccettabile”. Infine, quanto ai costi della politica, “il quesito è truffaldino perché parla solo di risparmi ma non dei costi che bisognerà sostenere per mettere in piedi il nuovo assetto, cifre che non sono definibili adesso”.

Domenico Gallo: si vuole piegare la democrazia ai poteri finanziari internazionali
“Le costituzioni si trovano sempre a cavallo tra la storia e il diritto, così come la nostra costituzione è nata dalla resistenza. Ma la Carta era all'epoca un progetto attraverso il quale il popolo italiano si è costituito come comunità politica unita da un destino comune. Nei beni pubblici repubblicani sanciti in quella sede tutto il popolo italiano si è riconosciuto, anche nei momenti di grandissimo conflitto politico. C'era sempre un filo comune”. Lo ha detto Domenico Gallo, magistrato, giudice della Corte di Cassazione. “Con questa riforma invece - ha continuato Gallo - c'è un passaggio da un modello a un altro modello di democrazia. Si esce dal progetto dei padri costituenti e si entra in un altro progetto, da un repubblica a un'altra. L'obiettivo è accrescere i poteri dell'esecutivo e ridurre il ruolo del parlamento, e quindi dei cittadini. La genesi di questo nuovo modello, però, sta nell'assetto dei poteri internazionali attuali, che pretendono di sottoporre gli stati a una sorta di tutela da parte dei mercati. Cioè, le istituzioni finanziarie vogliono decidere come deve funzionare la nostra democrazia. C'è un esempio preoccupante nel nuovo testo - ha concluso -, ed è quello della decisione su una dichiarazione di guerra. Nel nuovo modello proposto, il Senato non potrà mettere bocca, e deciderà una sola camera, che però grazie al sistema elettorale attuale è controllata da un unico partito. Quindi, decisioni esiziali per il nostro paese, come l'entrata in una guerra o l'intervento militare in zone di guerra, saranno prese da un solo gruppo politico. Sarà un leader che deciderà fuori dal parlamento. È una svolta molto preoccupante, ma in linea con quello che vogliono i poteri finanziari internazionali”.

Paolo Prodi: Non è una riforma ma un aggiornamento pasticciato
“Secondo me, quella proposta non è una riforma, ma un aggiornamento. E poi la storia ci ricorda che tante riforme del passato sono andate indietro e non in avanti. Ma questa non è comunque una riforma. Si pensi che anche all'epoca del Concilio Vaticano II, si parlò solo di aggiornamento, per pudore. Un pudore che servirebbe anche oggi”. E' l'opinione dello storico Paolo Prodi, epressa durante la staffetta per il No. “La Costituzione elaborata nel 1947 - ha continuato - doveva far fronte a una situazione molto particolare del Paese. Era adatta a quel momento storico, in cui bisognava salvare l'Italia da una parte dal regime comunista, dall'altra da quello capitalistico. Questo è stato il filo della lama su cui si sono mossi i padri costituenti. E una delle condizioni necessarie per questo equilibrio era la parità tra le due camere, per conservare la massima armonia su ogni decisione presa. Oggi - ha concluso Prodi - quelle condizioni sono venute meno. Si può quindi parlare di un aggiornamento, ma non bisogna toccarne lo spirito. Qualsiasi aggiornamento presuppone infatti uno spirito costituzionale unitario del popolo italiano nelle varie espressioni politiche che lo compongono. E' l'unico modo per fissare nuove regole opportune in una società nuova, non più divisa nei due blocchi ma globale, per fare di nuovo il cittadino un arbitro e non un suddito. L'aggiornamento degli articoli proposti nel referendum del 4 dicembre, però, non è altro che un garbuglio frutto di una confusione enorme, che nessun cittadino che legga iol testo è in gradi di comprendere”.

Baseotto: diciamo no nel merito, senza propaganda
"Quando abbiamo deciso di esprimere la nostra opinione di merito sulla riforma, che è oggetto di referendum, abbiamo invitato a votare no. Lo abbiamo fatto chiarendo che la Cgil non avrebbe aderito né aderisce ad alcun comitato". Così il segretario confederale della Cgil, Nino Baseotto. "Oggi si conferma della bontà della scelta della Confederazione: c'è una campagna elettorale fatta di polemiche spesso nominalistiche, che non parla del merito della riforma. La responsabilità è del presidente del Consiglio Renzi, che dall'inizio ha spostato il dibattito dai contenuti alla polemica politica: la stessa responsabilità ce l'hanno le forze politiche che hanno seguito lo schema". In questo modo, prosegue Baseotto, "si impedisce alla maggioranza dei cittadini italiani di conoscere e approfondire il merito dei cambiamenti, su cui il 4 dicembre siamo tutti chiamati al voto. Parliamo della riforma della Costituzione, il testo fondamentale su cui si basa la Repubblica e la democrazia: per questo noi come sindacato abbiamo espresso un'opinione di merito. Non cadiamo nella trappola della propaganda, ma continuiamo a rappresentare le ragioni di merito che ci hanno portato alla scelta del No".

De Siervo: buttato al mare il potere legislativo delle Regioni
Nel suo intervento, Ugo De Servio, già presidente della Corte Costituzionale, ha sottolineato i gravi difetti in merito al rapporto Stato-Regioni. “La riforma del 2001 e tutti i suoi difetti – ha detto – sono stati utilizzati strumentalmente. Innanzitutto, con questo testo questi difetti non sono stati corretti tutti, anzi, i punti che hanno causato il maggior contenzioso non sono stati neanche toccati”. Non solo. “È stata buttata via l’intera potestà legislativa affidata dal ’48, non solo ciò che è stato aggiunto nel 2001. Le 15 Regioni ordinarie non possono più legiferare su nulla, a differenza, e questa è un altro difetto, di quelle a Statuto Speciale”.

Stesso discorso per la composizione del nuovo Senato che, ha aggiunto il giurista, non è affatto convincente, poiché non ha nessun potere che riguarda le Regioni. Insomma, si butta via una camera eletta dal popolo a favore di una che sarà composta da un quadro politico intermedio. Sarà un organo debolissimo e che non eserciterà quei poteri di rappresentanza delle Regioni che pure si dice gli vengano affidati”.

Di Matteo: l'unica riforma è applicare la Costituzione
“Ci sono momenti in cui un magistrato non solo ha il diritto, ma ha anche il dovere etico di d’intervenire, di esporsi in prima persona. Questo, perché ho giurato fedeltà alla Costituzione, non obbedienza a partiti o a governi. Voglio ricordare che per quei principi costituzionali, tante persone - magistrati, poliziotti, sindacalisti, cittadini - sono morte nel corso degli anni, con la consapevolezza del rischio che correvano, pur di rispettare la Costituzione”. È quanto ha affermato Nino Di Matteo, pm di Palermo, intervenuto nel corso della staffetta Anpi-RadioArticolo1 sul referendum costituzionale.

“Oggi, è necessario intervenire, perché nel Paese è in corso un dibattitto fondamentale: quella del 4 dicembre, non è un’elezione come le altre, e sarebbe davvero triste se prevalesse l’astensionismo. Si decide su una riforma che modifica 47 articoli della Carta, e incide su aspetti basilari della nostra vita democratica. Se vogliamo rimanere cittadini e non diventare sudditi o servi, dobbiamo partecipare”, ha continuato il pubblico ministero siciliano. “Io penso che chi crede nella Costituzione deve avere innanzitutto un pensiero: non devono prevalere criteri di opportunità, legati alla necessità di appoggiare il governo in carica. Tutti abbiamo il dovere di difendere la Carta, e questa riforma non rappresenta un cambiamento auspicabile, ma costituisce uno sbilanciamento dei poteri, con il rischio di non essere più un ‘faro’ per il nostro Paese. Per me, l’unica riforma da fare sulla Costituzione è quella di applicarla”, ha concluso il magistrato.

Dalla Chiesa: si può e si deve cambiare, ma solo in meglio
“Io voglio cambiare la Costituzione, ma voglio cambiarla in meglio, dando più forza ai principi che l’hanno ispirata”. Così Nando Dalla Chiesa, docente di Sociologia della criminalità organizzata all’Università di Milano, intervenendo telefonicamente alla staffetta per il No organizzata dall'Anpi in collaborazione con RadioArticolo1. “Una Costituzione – continua Dalla Chiesa – sicuramente adeguata ai problemi di oggi, ma che sia forte dell’esperienza tragica che l’ha originata, con i dovuti contrappesi ed equilibri, sicuramente molto lontana dall’idea dell’uomo solo al comando”. Ma il no al referendum è per il professore anche “una questione di onestà intellettuale: in un paese zeppo di corruzione, clientelismo, arretratezze civili, mi sembra del tutto disonesto che si carichino queste colpe sull’attuale Costituzione”. Dalla Chiesa si dice anche favorevole a intervenire sulla prima parte della Carta, non solo sulla seconda. “La seconda parte è il modo in cui si applica la prima, quindi anche questa si può toccare” conclude: “Ci sono problemi che i costituenti all’epoca non potevano immaginare, come quello dell’emergenza ambientale. Nel 1946 non si poteva certo immaginare che un giorno fosse a rischio la sopravvivenza del pianeta, e questo è un tema che le costituzioni più moderne affrontano come grande questione di civiltà. Ma si deve cambiare in meglio e non in peggio, e stavolta questo non succede”.

Camusso: le tre ragioni per bocciare la riforma
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