Prende il via il programma di acquisto titoli su larga scala annunciato dalla Banca centrale europea poco più di un mese fa. Si parla di oltre 60 miliardi al mese per almeno un anno e mezzo: la Bce espanderebbe dunque il proprio bilancio per 1.200 miliardi, riportandolo largo circa ai livelli di inizio 2012. Dopo il varo delle Ltro (Long term refinancing operation), infatti, la Bce ha perseguito un costante deleveraging drenando liquidità dal mercato. 

Questa politica monetaria de facto restrittiva è stata solo parzialmente controbilanciata dalla riduzione dei tassi di interesse allo 0 per cento e ha accentuato le dinamiche deflattive all’interno dell’eurozona, dove la domanda debole dei paesi periferici già stava trascinando al ribasso i prezzi. Sul finire del 2014, il crollo del prezzo del petrolio ha portato le aspettative di deflazione al di fuori della sfera di controllo della Bce, che è dovuta obbligatoriamente intervenire.

Quali effetti ci si aspetta, dunque? Si può prevedere che il Qe ridia fiato alla dinamica dei prezzi, ma non in maniera omogenea: per i sistemi bancari periferici potrebbe essere più difficile infatti la trasmissione della nuova liquidità all’economia reale. L’euro continuerà il suo processo di svalutazione fino a lambire la parità con il dollaro, ma è facile prevedere che questo farà bene solo alle grandi economie esportatrici.

Il diavolo tuttavia si nasconde nei dettagli: la resistenza tedesca a un intervento deciso della Bce ha prodotto un’inattesa ripartizione dei rischi, mai attuata nelle precedenti espansioni monetarie messe in atto da Usa e Giappone. Da prassi consolidata, se una banca centrale acquista titoli del proprio governo non richiede il pagamento degli interessi e non pratica trattamenti discriminatori di segmentazione del rischio; nel programma Bce invece le cose vanno in maniera assai diversa.

Per quanto riguarda la questione interessi, l’approccio Bce non è certo una novità: tra il 2010 e il 2012, con il Securities market programme (Smp), la Bce ha acquistato circa 220 miliardi di euro di titoli dei paesi periferici. A giugno 2014, considerando che 60 miliardi di titoli sono già scaduti o sono stati reimmessi sul mercato, la stessa Banca centrale europea ha deciso di avviare una modesta espansione monetaria, arrestando la sterilizzazione dello stock dei 160 miliardi rimanenti.

Tuttavia, bisogna considerare che su questi titoli i governi sono tenuti a pagare gli interessi alla Bce (una decina di miliardi l’anno). Questi interessi vengono per la quasi totalità redistribuiti pro-quota sull’eurosistema (18 per cento la Germania, 14 la Francia, 12 l’Italia e così via). Si realizza così un paradossale trasferimento di risorse al contrario: la Germania per il tramite della Bundesbank riceve quasi 4 miliardi di interessi dai paesi periferici. Altro che il moral hazard paventato dai tedeschi in cui il Quantitative easing finanzia la spesa pubblica dei paesi periferici…

Approfondiamo ora il delicato tema della suddivisione dei rischi: nell’acquistare i titoli, la Bce si comporterà come la Fed (Federal Reserve) o la Boj (la Banca del Giappone) solo per 100 miliardi (l’8 per cento del totale). Il rischio di questi titoli sarà, come nella norma, sostenuto dalla banca centrale e quindi trasferito sui paesi dell’eurozona in maniera pienamente mutualizzata.

Il restante 92 per cento del programma verrà eseguito invece attraverso la mediazione delle banche centrali nazionali, che compreranno per il 12 per cento titoli emessi da organismi europei (tra questi farà la parte del leone il Fondo Salva-Stati) e per l’80 per cento la quota dei debiti governativi di riferimento (la Banca d’Italia acquisterà pro-quota i titoli italiani, la Bundesbank i titoli tedeschi e via dicendo).

Perché questo passaggio tecnico? In questa maniera, le banche centrali saranno garanti della possibile insolvenza del proprio governo presso la Bce. Facciamo un esempio: si ipotizza che la Banca d’Italia acquisti 100 miliardi di titoli governativi italiani; se in futuro l’Italia dovesse fare default o decidere di abbandonare la moneta unica, scegliendo la strada della svalutazione, qualsiasi possa diventare il valore dei titoli nell’attivo della Banca d’Italia (esempio: 40 miliardi di nuove lire), la nostra banca centrale dovrebbe restituire sempre 100 miliardi di euro alla Bce.

Si tratta degli stessi effetti finanziari connessi all’assoggettamento del proprio debito a legge estera: in questi casi (come quello della Grecia), lo Stato si priva del potere di ridenominare in una nuova valuta il proprio debito nazionale, trasferendo la competenza legale a sedi estere – come Londra – per dare maggiori garanzie ai creditori. I possessori di titoli sono maggiormente tutelati, perché un eventuale nuovo governo non potrà ridurre il proprio debito istituendo una nuova moneta e svalutandola, ma dal punto di vista dei governi si tratta di una clausola fortemente vessatoria e che limita la sovranità nazionale.

Secondo le regole dell’ingegneria finanziaria, la Bce e le banche centrali nazionali dei paesi membri stanno sottoscrivendo un derivato di credito, più propriamente un Cds (Credit default swap): stanno vendendo cioè protezione sul debito del proprio governo in cambio di un premio (gli interessi). Questi sono incamerati dalle banche centrali nazionali e compensano da un punto di vista monetario le garanzie prestate nei confronti della Bce per i rischi dei debiti pubblici nazionali. Recuperando l’esempio dell’Italia, gli interessi corrisponderebbero alla non trascurabile cifra di un miliardo l’anno fino alla scadenza dei titoli in portafoglio.

Anche l’acquisto di titoli sovranazionali presenta strane peculiarità in tema di ripartizione dei rischi: i titoli dei Fondi Salva-Stati (Efsf, Esm), pur acquistati dalle banche centrali nazionali, prevedono la mutualizzazione delle potenziali perdite. In realtà, su questi titoli c’è già un meccanismo di mutualizzazione dei rischi sull’eurozona secondo le percentuali di partecipazione al Fondo (per la Germania il 27 per cento, per la Francia il 20, per l’Italia il 18 e così via); quindi nei fatti l’acquisto da parte delle banche centrali nazionali effettua una sorta di inedita mutualizzazione “al quadrato”, in cui i Fondi Salva-Stati garantiscono i governi in difficoltà e sono garantiti sia dai governi che dalla Bce.

Perché una simile complessa ingegneria finanziaria? Una risposta intrigante emerge dall’analisi della composizione dei rischi dell’Efsf, che vede una quota rilevante occupata dai titoli del debito pubblico greco. Considerata l’incerta situazione del negoziato Grecia-Troika, una ristrutturazione del debito ellenico non è da escludere: se ciò accadesse, si determinerebbero perdite che qualche Stato membro potrebbe decidere di non garantire. Il Qe risolve il problema preventivamente, trasferendo i rischi di perdita che sono in capo ai governi in subordine sulle banche centrali nazionali. Della serie: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

La vera struttura del Qe è dunque complessa ed emerge con evidenza il fatto che non ci sono “regali” ai paesi “deboli” della periferia. Né si intravede una tendenza alla mutualizzazione piena dei rischi, principio che dovrebbe rappresentare l’obiettivo di lungo termine dell’unione monetaria. C’è invece una pericolosa deriva verso la nazionalizzazione dei rischi in cui ognuno garantisce per sé; la prosecuzione di un simile scenario rappresenterebbe il de profundis dell’idea stessa di Europa.