Jerry Essan Masslo fu solo il primo morto ammazzato in quella lunga scia di sangue che punteggia la storia dell’immigrazione in Italia. Al giovane sudafricano che pagò con la vita la difesa dei pochi spiccioli guadagnati in dure ore di lavoro seguiranno in tanti: i 283 naufraghi della Iohan al largo di Portopalo e le anime risucchiate nel Canale di Sicilia, nei cui bassifondi andrebbe eretto un monumento al migrante ignoto; i sei africani falciati dal piombo dei casalesi nella strage di Castelvolturno, il 18 settembre del 2008, che ci piace ricordare per i loro nomi e cognomi che nessuno ha mai memorizzato: i ghanesi Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams, El Hadji Ababa e Samuel Kwako del Togo, il liberiano Jeemes Alex.

Un luogo particolarmente simbolico e sfortunato, il casertano, dove la sorte ha voluto che lasciasse la vita anche Miriam Makeba, la cantante sudafricana che aveva rappresentato la voce di tanti tra quegli immigrati. È giusto che il premio che la Flai-Cgil ha indetto nelle terre che hanno il colore dei pomodori e del sangue di chi li raccoglie per pochi euro al giorno, giunto alla seconda edizione, rimanga intitolato all’uomo il cui sacrificio per primo spinse la politica e la società italiane a prendere coscienza di un fenomeno fino ad allora ignorato.

Era il 1989 e seguiranno una enorme manifestazione antirazzista e un movimento d’opinione che condurranno alla prima legge sull’immigrazione nel nostro paese, che porterà il nome dell’allora ministro dell’Interno Claudio Martelli. Solo, bisognerebbe aggiungere delle sottotitolazioni: ai morti della Iohan e della Kater I Rades, a quelli della sartoria Obi Obi Fashion di Varcaturo.

Chi scrive è stato invitato a far parte della giuria del premio
. Giudicheremo studenti delle scuole primarie e secondarie, scrittori madrelingua, studenti universitari. Già qualche anno fa, per una serie di racconti sul quotidiano il manifesto dal titolo Made in Italy, mi era capitato di avere a che fare con uno sguardo sull’Italia che non era quello che vediamo quotidianamente sui nostri mezzi di comunicazione. Leggere di come le ragazzine africane sognino di avere la pelle bianca delle loro coetanee italiane, o vedere il nostro paese attraverso il filtro di un operaio rumeno vittima di un incidente sul lavoro, consentiva delle finestre su un’Italia che, per larghi aspetti, non conosciamo più.

Per fare un parallelo, è come quando i film, i grandi fotografi e la letteratura neorealista dal dopoguerra a tutti gli anni 60 fecero scoprire al Nord il dolore e la disperazione del Sud Italia, un mondo che non avevano mai avuto modo di vedere e verso il quale nutrivano più di un pregiudizio. Tutto ciò non frenò il razzismo allora, e magari nemmeno oggi lo farà, però costituì un argine, una barriera alla sua avanzata, nonostante le ascese leghiste e i rigurgiti neofascisti. È un effetto che solo la conoscenza, la cultura, poter guardare negli occhi le persone e capire le loro ragioni possono dare.