C’è un episodio che è passato alla storia del nostro Paese col nome di “cacciata di Lama dall’Università”. Un nome che, a mio giudizio, non rende l’idea di ciò che avvenne alla Sapienza di Roma il 17 febbraio di quarant’anni fa. Ma che discende, più che dalla natura dell’evento, dal modo in cui i mezzi di informazione lo rappresentarono. Quaranta anni non sono pochi, ma non sono neppure tantissimi. Anche perché, da allora a oggi, non si è fortunatamente prodotto uno di quegli eventi che, come fanno le guerre, separa in modo netto un gruppo di anni da un altro. Eppure è difficile rendere, a chi è nato dopo, l’atmosfera di quel 1977 e il senso di quella giornata, purtroppo indimenticabile.

Cominciamo col dire che la manifestazione che era stata indetta per quella mattina nella città universitaria era una manifestazione sindacale. Il che, negli anni settanta, voleva dire una manifestazione di Cgil, Cisl e Uil. Oggi solo i più anziani se lo ricordano, ma tra il 1972, anno del patto federativo fra le tre maggiori confederazioni, e il 1984, anno della rottura, tutte le iniziative sindacali, salvo quelle legate alla vita interna delle singole organizzazioni, erano unitarie. Anche se, naturalmente, il fatto che una delle tre confederazioni, la Cgil, avesse deciso di impegnare nell’appuntamento romano il suo dirigente nazionale di maggior spicco, finì per concentrare l’attenzione di tutti, e non solo quella dei media, sulla Cgil stessa e sul suo segretario generale.

Secondo punto. Dopo l’autunno caldo del 1969, ci fu una fase in cui la popolarità dei sindacati toccò punte forse mai raggiunte, né prima né dopo, nel nostro Paese. Al culmine di una lunga fase di sviluppo, nella costruzione della quale i lavoratori avevano dovuto affrontare e vivere duri sacrifici, le lotte sindacali esplose alla fine degli anni sessanta, e prolungatesi nei primi anni del decennio successivo, venivano percepite come lotte in cui molti potevano riconoscersi: occupati e disoccupati, uomini e donne, giovani e anziani. E Luciano Lama, il prestigioso leader della confederazione più grande e più radicale, la Cgil, arrivò a godere di una grande popolarità, anche personale.

Terzo punto. Tecnicamente parlando, Lama non fu “cacciato” dall’Università. Come ha ricordato in una recente intervista uscita su Repubblica Antonio Lippa, che all’epoca lavorava come autista dello stesso Lama, il segretario generale della Cgil, a un certo punto della mattinata, decise saggiamente di chiudere la manifestazione sindacale. Ciò avvenne quando la protesta dei cosiddetti “autonomi”, contro il comizio ancora in corso, da “contestazione” vocale cominciò a trasformarsi in aggressione aperta, con il lancio di bastoni, sassi e perfino pesanti sampietrini contro i manifestanti. Lo scopo di Lama, con ogni probabilità, era quello di evitare uno scontro diretto fra i seguaci di Autonomia Operaia e il servizio d’ordine sindacale. Purtroppo, l’annuncio dello scioglimento della manifestazione, effettuato dal camion che fungeva da palco del comizio, finì per avere l’effetto contrario. Nel senso che, a quel punto, il cordone sindacale non contenne più la pressione degli “autonomi” che anzi lo sfondarono e arrivarono, in pochi passi, a conquistare un palco ormai vuoto. Lama, insomma, decise consapevolmente di andare via dalla città universitaria prima che si determinassero conseguenze più gravi. Ma, a partire dai giornali del mattino dopo, la giornata era stata ormai etichettata come “la cacciata di Lama dall’Università”.

I fatti del 17 febbraio sono stati indubbiamente clamorosi. E ciò per due motivi. Il primo è che, a meno di dieci anni dal ’68, l’Università di Roma era considerata come una roccaforte della sinistra. Il fatto che da quel luogo venisse respinta con violenza una manifestazione sindacale, era di per sé una notizia di primaria grandezza. Notizia rafforzata dal fatto che il protagonista dell’episodio fosse quello che, come si è detto, era l’uomo che più di ogni altro incarnava l’immagine stessa di un movimento sindacale unitario, militante, forte, rappresentativo, ascoltato, credibile.

Come si arrivò a quella infausta giornata? Quale fu il suo significato? Quali conseguenze ebbe? Del senno del poi, si sa, son piene le fosse. È dunque facile, oggi, dire che, a monte di quella iniziativa sindacale, vi furono almeno un paio di errori. Il primo, di carattere strategico, fu quello di non aver capito che mentre per i giovani della generazione del ’68, nati nel dopoguerra e cresciuti, in molti casi, nel mito della Resistenza, lavoratori e sindacati costituivano un naturale punto di riferimento delle loro lotte antiautoritarie, per i ventenni del ’77 questo legame si era già in parte sfilacciato, se non consunto. Il che non significa che gli studenti dell’Università di Roma, in quanto tali, si siano mossi per respingere una manifestazione sindacale. Significa, però, che si era ormai formato un clima ideologico in cui l’arrivo di un corteo sindacale poteva non essere salutato al grido di “Arrivano i nostri”, ma percepito con un senso di estraneità, del tipo “Ma adesso questi che vogliono?”.

Da ciò derivò che anche una parte degli astanti, che potremmo definire come “neutrali”, non percepì il comizio sindacale come un tentativo di stabilire un dialogo fra lavoratori sindacalmente organizzati e studenti in lotta per una università più democratica, ma come il tentativo di imporre agli studenti medesimi parole d’ordine e obiettivi da un lato concepiti altrove, e, dall’altro, troppo moderati. Insomma, come un tentativo di normalizzazione.

Infine, nell’ideare la manifestazione vi fu un errore tattico. Perché un conto era la massa degli studenti, più o meno movimentatasi; altra cosa era Autonomia Operaia, ovvero un’organizzazione estremista - fatta di studenti, ma anche di lavoratori, disoccupati, sbandati - che non aveva nessuna remora di fronte all’ipotesi di utilizzare una violenza degna di essere definita come squadrista. E ciò anche perché nella sua confusa e rozza ideologia, l’estremismo rivendicativo faceva tutt’uno con un’avversione radicale per le organizzazioni del movimento dei lavoratori, accogliendo in sé e mischiando in una miscela micidiale istanze di estrema sinistra e pulsioni di estrema destra.

Portare una manifestazione non preparata adeguatamente sul piazzale del Rettorato fu quindi non solo portare un corteo di studenti, docenti e ricercatori vicini al movimento sindacale, mischiati a delegati provenienti da vari luoghi di lavoro, nella bocca del leone. Significò anche offrire ad Autonomia Operaia l’occasione di indossare i panni della vittima, ovvero di chi aveva respinto un tentativo di invasione messo in atto dal massiccio servizio d’ordine dei sindacati e da quello, anche più massiccio, del Partito comunista. E del resto, fu questa la narrazione dei fatti del 17 febbraio che prevalse su molti giornali del giorno dopo, con l’eccezione de L’Unità: gli “studenti” hanno cacciato Lama dall’Università.

Lama era un dirigente di grande onestà intellettuale e di indiscusso coraggio personale. Con ogni probabilità affrontò quella giornata nella convinzione che fosse un suo dovere andare a dire direttamente agli studenti universitari che una seria azione per una riforma dell’istruzione superiore poteva essere condotta insieme, a patto che venisse evitata qualsiasi tentazione estremista.

Le cose, purtroppo, andarono male. Nessun nuovo dialogo venne aperto. E apparve in superficie, anzi, una spaccatura generazionale che era venuta maturando nel corso degli anni settanta. Una parte dei sessantottini e degli studenti più giovani si era ormai schierata col sindacato e con i partiti di sinistra, a partire dal Pci. Ovvero con ciò che, all’epoca, veniva ancora chiamato “movimento operaio”. Si vide, invece, che un’altra parte era composta da quelli che non esitavano di fronte all’idea di aggredire a sassate e bastonate i partecipanti a una manifestazione sindacale. Si era insomma resa visibile quella spaccatura che, di lì a poco, degenerò in quella deriva che portò alla nascita del terrorismo cosiddetto “rosso”; quello praticato da organizzazioni come Prima Linea e come le Brigate Rosse.

C’è chi ha tentato di dare una spiegazione sociologica di questa spaccatura, come se essa prefigurasse quella tra lavoratori stabili e precari. Personalmente, non credo che le cose stiano così. Secondo me, quella che emerse allora fu una spaccatura essenzialmente politica.

@Fernando_Liuzzi

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