Con la nomina di Graziano del Rio a ministro delle Infrastrutture, Renzi estende ancor più la sua potenza personale e conquista una casella dall’indubbia rilevanza nella gestione dei rapporti di influenza e di scambio. Eppure, questa continua evoluzione del governo verso la forma di un monocolore Pd, con molti ministri e sottosegretari prescelti sulla base di una relazione fiduciaria nei confronti della persona del premier, non necessariamente equivale a un rafforzamento della maggioranza.

Si intrecciano, per questo, segnali di durata e di consolidamento della leadership accanto a sensazioni di fragilità e debolezza della compagine ministeriale. Dopo l’assimilazione di Scelta Civica, con l’ingresso del ministro Giannini nel Pd, e dopo la visibile emarginazione del nuovo centro-destra ferito dalla vicenda Lupi, il governo ospita solo personalità prive di un autonomo spessore politico e quindi ben volentieri tollerate, perché non fanno alcuna ombra al premier.

Il solo esponente politico che vanta una lunga esperienza di governo e un prestigio politico indipendente è Alfano, ma, dopo aver perso la vicepresidenza del Consiglio e dopo essere stato costretto ad accantonare tre dei suoi ministri nei governi prima di Letta e poi di Renzi, sembra rassegnato a sopravvivere, accettando il cammino dell’irrilevanza.

Il fatto è che il suo progetto politico è fallito. Aveva un senso nel tempo di Letta, quando, rompendo il rapporto di obbedienza verso Berlusconi, lanciava il tentativo di costruire una destra politica e non più aziendale. Con il sacrificio di Letta, quel progetto dell’Ncd come anticipazione di un nuovo progetto, e come area della responsabilità pronta a prove di dialogo e collaborazione governativa in un quadro altrimenti bloccato come quello del tripolarismo paralizzato, non aveva più senso.

Fu stritolato con il Patto del Nazareno. E, invece di mutare atteggiamento, Alfano ha continuato ad agire come su nulla fosse accaduto. Da più fedele alleato di Letta, si è trasformato in docile luogotenente di Renzi, disponibile a cedere su tutto il disegno di riforma istituzionale, come se l’esperienza continuasse allo stesso modo di prima, ma con un interprete diverso. Con questo atteggiamento del tutto subalterno, Alfano ha scelto la strada che lo conduce al suicidio.

La legge elettorale che il governo sta varando, per giunta con l’inopinato appoggio determinante dell’Ncd, non concede spazio alcuno a formazioni minori, disegna infatti un bipartitismo muscolare che, attribuendo comunque, un premio alla prima lista non ha bisogno di coalizioni e apparentamenti. Una scelta incomprensibile in politica, dove non esistono sostegni senza calcoli delle convenienze. E però, proprio la percezione della via senza uscita nella quale Alfano ha condotto il suo piccolo partito, potrebbe risvegliare tra i suoi deputati quegli istinti di conservazione destinati a far saltare la poltrona di Renzi.

Mentre conquista sempre più potere e lo distribuisce nel suo cerchio magico, lo statista di Rignano demolisce le condizioni politiche della sua leadership. Una classica buccia di banana potrebbe per questo far scivolare rovinosamente un capo che gustava un dominio epocale.