Un rapporto intenso, complesso, ricco di potenzialità e anche di limiti è quello che lega il sindacato italiano con la popolazione immigrata. Attraverso la nostra indagine abbiamo cercato di capirne qualcosa di più, e forse qualche importante informazione l’abbiamo recuperata.

Innanzitutto, partiamo dal contesto sociale in cui questo rapporto vive e si struttura: crisi economica, spregiudicatezza mediatica, avversione politica e mancanza di politiche di integrazione hanno creato un clima di negatività – se non di aperta ostilità – nei confronti degli immigrati. Inoltre, le normative sull’accoglienza, il soggiorno e l’accesso ai diritti di cittadinanza tendono a relegare le persone provenienti dai paesi terzi in una condizione di subalternità e ricattabilità che - associate alla crescente precarizzazione lavorativa - ne determinano l’estrema debolezza sul mercato del lavoro provocando anche forme di gravissimo sfruttamento. Di fronte a queste enormi difficoltà l’argine della tutela sindacale diventa dirimente se non, addirittura, fondamentale per la difesa dei diritti degli immigrati; e come più volte è stato sottolineato, il sistema dei diritti da tutelare non si esaurisce in quelli relativi al solo mondo del lavoro, ma si estende – per le caratteristiche peculiari del soggetto immigrato – a quelli più generali della piena cittadinanza. Da questo punto di vista, per dirla in termini di mercato, l’incontro tra domanda e offerta (di tutela dei diritti) dovrebbe risolversi in una perfetta corrispondenza.

Eppure, per diversi motivi, questa corrispondenza non sembra essere stata ancora completamente realizzata. Il rapporto tra gli immigrati e il sindacato è dato dall’interazione che avviene tra questi due soggetti e se da un lato c’è la popolazione immigrata con le sue mille sfumature e sfaccettature, con diversi portati culturali, formativi ed esperienziali; dall’altro ci sono le organizzazioni sindacali con una loro storia, con i loro apparati organizzativi e i loro paradigmi interpretativi.

Con il limite che ha ogni ragionamento che tende a sintetizzare e semplificare la posizione di gruppi estremamente eterogenei, l’indagine ci ha offerto alcuni spunti interpretativi con cui descrivere l’approccio al sindacato da parte degli immigrati. Innanzitutto dobbiamo osservare che c’è di base un gap di conoscenza delle pratiche sindacali; vuoi per la mancata sindacalizzazione nei paesi d’origine (ovvero per la inconsistenza delle Oo.Ss. in molti dei paesi da cui provengono i soggetti intervistati), vuoi per la mancanza di rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro; sta di fatto che esiste in molti dei nostri intervistati una certa confusione su quello che è realmente un’organizzazione di tutela dei lavorati. Questo, ovviamente, rischia di generare false aspettative sia nei metodi che nell’azione della rappresentanza.

Un altro aspetto molto importante riguarda il ruolo della rete migratoria. Come nell’accesso al lavoro e nell’inserimento nella società d’accoglienza, anche l’incontro con il sindacato sembra essere determinato, soprattutto, dai legami interpersonali e dai vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine. Anche in questo caso, il ruolo della rete sembra possa avere una doppia valenza: positiva se favorisce un incontro consapevole del lavoratore con le Oo.Ss., negativa, se offre, a chi il sindacato ancora non lo conosce, un’immagine fuorviante. Un ultimo aspetto che vale la pena sottolineare riguarda la manifesta voglia di protagonismo degli immigrati. Le donne e gli uomini che abbiamo intervistato vogliono, almeno nel sindacato, essere considerati soggetto politico e non oggetto di politiche specifiche. La richiesta di più formazione linguistica e sindacale, la volontà di fare più assemblee e - più in generale - di ottenere maggiori opportunità di dialogo, ma anche l’istanza di avere più rappresentanza e più voce in capitolo nei processi organizzativi e decisionali, sono evidenti segnali di persone che richiedono spazio e partecipazione attiva

Se da un lato questa voglia di protagonismo è anche merito degli stessi sindacati, che evidentemente hanno saputo trasmettere, anche a persone con poca dimestichezza con il mondo sindacale, il valore in sé del protagonismo della classe lavoratrice e l’importanza dei corpi di intermediazione sociale nell’ambito della dialettica capitale-lavoro; dall’altro è opportuno che questa grande potenzialità di protagonismo e partecipazione sia maggiormente supportata e valorizzata.

Dai nostri studi, abbiamo avuto l’ennesima conferma che il mondo del lavoro attuale e in particolare quello in cui operano la maggior parte degli immigrati è difficilmente sindacalizzabile: si lavora nelle famiglie, nelle campagne, in piccole imprese artigiane, in migliaia di micro-cantieri difficilmente raggiungibili, etc., luoghi dove il sindacato tradizionale fa più fatica ad entrare e dove la partecipazione alle attività sindacali è giocoforza limitata. Ma questa è una sfida a cui il sindacato deve necessariamente rispondere. Una sfida organizzativa, politica e culturale che investe i sindacati e che rimanda ad una più generale trasformazione del mondo del lavoro.

Servizi ad hoc dei Patronati e dei Caaf, campagne mediatiche e mobilitazioni, esperienze come il “sindacato di strada” e contratti siglati come quello sulla disciplina del lavoro domestico da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil, sono esempi di come il movimento sindacale confederale abbia intrapreso una strada - al tempo stesso di recupero e innovazione - di pratiche sindacali in grado di raggiungere fasce di lavoratori altrimenti escluse dall’agone della rappresentanza. Eppure tutto ciò ancora non basta. Se da un lato, infatti, appare necessario incrementare queste pratiche, dall’altro è di fondamentale importanza mantenere saldi i principi di solidarietà e uguaglianza su cui fonda il sindacato stesso.

Formazione per funzionari e delegati, protagonismo del territorio, dialogo con i migranti dentro e fuori i luoghi di lavoro, contrattazione di sito e di filiera per ricomporre la frammentazione dei luoghi di lavoro, contrattazione sociale territoriale di carattere confederale, rappresentanza “più aperta” per chi proviene da altri paesi, lotta a qualsiasi forma di pregiudizio e razzismo: queste potrebbero essere alcune delle parole d’ordine di un sindacato che si prepara ad affrontare le nuove sfide di un mondo globalizzato e di un mercato del lavoro sempre più precario e frammentato, in cui diventa sempre più urgente e importante dare voce e strumenti di emancipazione per chi è più debole.