Il cinema, purtroppo, non è ancora un lavoro per donne. Lo confermano gli ultimi dati disponibili, diffusi dall'European Women's Audiovisual network: in Italia solo il 15% di opere prime e seconde sono dirette da donne, mentre su dieci registi che lavorano soltanto due non sono uomini. Uno studio dell'anno scorso a cura della University of Southern California, dal titolo Gender Bias Without Borders, ha sottoposto film di tutto il mondo a un test di genere: in circa 70% delle pellicole analizzati i protagonisti sono uomini, solo nel 23% dei casi troviamo una protagonista donna. Eppure le donne al cinema hanno molto da dire, rivendicano un alto risultato artistico, si fanno spazio con la forza dei loro racconti: è il caso di Figlia mia di Laura Bispuri, attualmente al cinema, storia di madri e figlie declinata interamente al femminile. Ne abbiamo parlato su RadioArticolo1 con Marta Donzelli, la produttrice della Vivo Film che ha lanciato l'opera nelle sale.

 

Frances McDormand ha appena vinto l'Oscar come migliore attrice protagonista per Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Come già fece Patricia Arquette, nella cerimonia ha rivendicato i diritti delle donne nel settore cinema. Tu come ti poni?

Questo è oggi un tema importante e delicato, a cui sono molto sensibile. Al di là degli scandali sulle molestie, che hanno occupato il dibattito negli ultimi mesi, alla base c'è un nodo molto più profondo: il mestiere del cinema ha un accesso alle donne ancora complesso, inoltre spesso porta noi donne lontano da casa, quindi non è semplice da esercitare. C'è un'oggettiva difficoltà di ingresso, ancora oggi i numeri sono scoraggianti: le donne che arrivano a recitare, dirigere, produrre e avere ruoli chiave nei film sono certamente troppo poche. Malgrado questo, però, anche in Italia troviamo attrici e registe interessanti che si ritagliano il proprio spazio.

Alcune di queste sono protagoniste del vostro film, Figlia mia, storia di una bambina che scopre di avere due madri, l'una adottiva e l'altra naturale. Come nasce la scelta di produrlo?

Avevamo già prodotto il primo film di Laura Bispuri, Vergine giurata, come questo selezionato in concorso alla Berlinale, che ha avuto un percorso fortunato in molti festival nel mondo. C'era la volontà di continuare a lavorare con la cineasta: lei ha espresso la voglia di girare un film per raccontare il tema della maternità a 360 gradi. La sua idea è partita da una storia vera, il racconto di una giovane ragazza che a 20 anni aveva sentito il desiderio di venire adottata da un'altra madre, diversa rispetto a quella naturale. Questo particolare episodio è stato l'origine di un'ampia riflessione sul senso del materno, sui modelli femminili imposti dalla società alle donne, e non è un tema di genere bensì universale. A quel punto insieme alla sceneggiatrice Francesca Manieri hanno iniziato a costruire il film, che si è poi sviluppato nell'arco di tre anni, trovando i volti di Valeria Golino e Alba Rohrwacher, per la prima volta insieme. L'altra protagonista è una rivelazione, la bambina interpretata da Sara Casu.

Dall'8 marzo, giorno della festa delle donne, torna in sala anche Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli. Il film, prodotto sempre dalla Vivo, racconta la storia della leggendaria cantautrice tedesca Christa Päffgen, interpretata da un'altra grande attrice donna, la danese Trine Dyrholm: qual è stato il suo percorso?

L'opera ha vinto la sezione Orizzonti all'ultimo Festival di Venezia. Poi ha avuto otto candidature ai David di Donatello, tra cui una nomination anche per noi come migliore casa di produzione: dopo questa bella sorpresa stiamo riportando il film nelle sale, in versione originale con i sottotitoli, per dare a tutti la possibilità di vederlo. Mi piace ricordare che il cinema è sempre un lavoro di gruppo, dai produttori ai registi e tutti i lavoratori, come costumisti, tecnici ed elettricisti, per questo il riconoscimento delle varie componenti fa particolarmente piacere.

A tal proposito, com'è il tuo lavoro di produttore oggi in Italia? Quali sono le difficoltà e quali le soddisfazioni?

È un mestiere che non pensavo di fare nella vita. Mi ha colto di sorpresa, ma oggi lo amo moltissimo: di fatto il nostro compito è inventare nuovi modi di immaginare il mondo. Inoltre dialoghiamo con artisti e personalità sempre diverse, la trovo una grande ricchezza. Nella sostanza è un lavoro complesso: quando parte la macchina di un film questa diventa fondamentale per tante persone, il produttore è colui che tira le fila. Negli ultimi anni, in Italia, si è arrivati progressivamente ad avere un sistema che supporta il cinema in modo adeguato. Oggi ci troviamo davanti alle nuove tecnologie, naturalmente, e le modalità di fruire i film a casa rendono ancora più difficile il lavoro della produzione: viviamo alcune difficoltà, quindi, perché non è facile raggiungere il pubblico e far resistere un film nelle sale. Per noi - però - il cinema resta un'arte da vedere sul grande schermo, in una sorta di rito collettivo che ogni volta si rinnova.

In virtù di questo ragionamento, cosa ne pensi del caso Guadagnino? Chiamami col tuo nome è stato candidato a quattro Oscar, ha vinto per la migliore sceneggiatura non originale, insomma è stato riconosciuto all'estero piuttosto che in Italia.

Qui si apre un discorso complesso. In generale, non sono pessimista sul destino cinematografico del nostro Paese: per esempio, per noi partendo dal 2004 è stato possibile costruire una casa di produzione con molte soddisfazioni. Spesso accade che i film facciano strani percorsi, siano più riconosciuti all'estero: forse c'è una maggiore libertà di sguardo fuori dai confini italiani. Nel caso di Guadagnino, il film non poteva essere nominato per l'Italia perché girato in inglese e il regolamento non lo permette, da qui la sua scalata alle nomination insieme ai film americani. Come produttrice, non posso che farei complimenti a Guadagnino e ai suoi produttori. Hanno costruito un percorso molto intelligente: il film è partito dal Sundance, ha fatto una strada solida, è uscito nelle sale italiane solo dopo aver ricevuto le nomination, quindi era già conosciuto. È stata un'ottima strategia.