È un’emergenza costante. Scappano dai peggiori teatri di guerra e da paesi poveri e autoritari. Percorrono migliaia di chilometri e sopravvivono al deserto e al mare per arrivare in Italia. Per poi ripartire o restare. Si chiamano Mohammed, Vasile, Hanaa, Dimitru, Ioana. Nomi che oggi suonano familiari, con il loro carico di storia, tradizioni e significati antichi. Nomi di chi oggi vive e lavora accanto a noi. Sono 2,7 milioni. Valgono 123 miliardi di Pil. Producono il 9% della ricchezza italiana. E rappresentano quasi l’11% della forza lavoro in Italia. Per vivere si logorano nei cantieri, si sfiancano nelle fabbriche, si affaticano nei negozi, si consumano nelle campagne. Ma, soprattutto, lavorano dentro le nostre case: badanti, assistenti e collaboratori domestici.

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Sono i lavoratori stranieri dichiarati, cioè regolari, che rappresentano oltre la metà dei cinque milioni di immigrati attualmente residenti in Italia: gli stranieri in età da lavoro nel 2015 in Italia sono quattro milioni, di cui 2.694.120 occupati, 465.695 in cerca di lavoro e 1.240.312 inattivi. Ben 190 le differenti nazionalità presenti in tutta la penisola. Lavoratori integrati, quando regolari, che rappresentano una vera e propria ricchezza per il paese. A dispetto della propaganda di alcuni, infatti, l’immigrazione conviene. Perché chi arriva qui produce.

E paga le tasse. “Il loro contributo presenta un saldo positivo di oltre tre miliardi di euro per il fisco – precisa Danesh Kurosh, responsabile nazionale Cgil per gli immigrati –. Ciò vuol dire che contribuiscono di più di quanto usufruiscano in servizi. Ma purtroppo sono spesso ancora considerati lavoratori di serie B. Basti pensare alla differenza di stipendio, calcolata inferiore del 30% per le donne e del 20% per gli uomini, e che il lavoro svolto dagli stranieri è spesso inferiore al loro livello di istruzione. Sono una risorsa importante, che però deve essere rispettata e salvaguardata”.

Perché anche i lavoratori stranieri hanno risentito della crisi. Pur presentando una maggiore vitalità occupazionale, non bisogna pensare che i migranti stiano soffrendo meno degli italiani in questi anni. Al contrario, rappresentano una delle componenti più vulnerabili della forza lavoro: la crisi economica li ha colpiti duramente e, al contrario degli italiani, hanno meno tutele e possibilità di sostenere un periodo di disoccupazione. Ancora più gravi – ovviamente – sono state le conseguenze per la popolazione straniera irregolare.

Il mercato del lavoro italiano sta male. Ma senza gli immigrati starebbe peggio. A guardare i numeri raccolti dal ministero del Lavoro, i lavoratori stranieri colpiti dalla crisi stanno risalendo la china più e meglio degli italiani. Così, mentre l’occupazione italiana cala, la quota di lavoratori stranieri è l’unica a crescere. Tra i Paesi europei, solo in Italia la variazione positiva del numero di occupati è da attribuirsi soprattutto agli stranieri, che svolgono però lavori poco qualificati e con stipendi più bassi.

Il fabbisogno di manodopera a basso costo e la necessità di reperire personale per mansioni di “cura” garantiscono una maggiore appetibilità della forza lavoro immigrata e, in caso di perdita del lavoro, una maggiore rapidità per rientrare nel mercato. Accettando però lavori pagati meno e meno qualificati. La caratteristica del mercato del lavoro italiano è che tra gli stranieri crescono, contemporaneamente, occupazione e inattività, mentre il tasso di disoccupazione nel corso della crisi è cresciuto, attestandosi al 16,9%.

Anche per gli stranieri la disoccupazione si concentra tra i giovani: più della metà di coloro che sono in cerca di un lavoro ha meno di 34 anni (51% del totale). E persino un buon numero di Neet – coloro che non sono impegnati né nel lavoro, né nello studio – si trova tra le file degli immigrati. In Italia, su un totale di oltre 2,4 milioni di Neet, 346.989 sono stranieri, ovvero il 14,4 per cento. In questo scenario, va segnalato che anche il tasso di occupazione, pur mantenendo performance migliori rispetto alla parte italiana, è calato costantemente negli ultimi anni.

Non solo. A fronte della diminuzione del numero di occupati italiani di circa 23mila unità nell’arco degli ultimi dodici mesi, il numero di occupati stranieri è cresciuto di oltre 111mila unità. Tutte stime che però fanno riferimento ai soli lavoratori regolari. Pur non essendo in possesso di dati esatti, si calcola che in Italia ammonta a circa un milione la quota degli irregolari. La mancanza del permesso di soggiorno impedisce infatti ai migranti di svolgere attività lavorative con un regolare contratto di lavoro. Ciò li rende particolarmente esposti alla crisi, non potendo vantare alcuna forma di garanzia giuridica del rapporto lavorativo.

Il fatto è che la legge italiana prevede che la concessione e il mantenimento del permesso di soggiorno per motivi di lavoro siano subordinati al possesso di un impiego. Questo comporta che, durante un periodo di crisi, restare privi del lavoro può portare alla perdita del permesso di soggiorno e al conseguente ritorno a una condizione di irregolarità. “Gli strumenti per combattere il lavoro nero ci sarebbero, anche se sono sostanzialmente incompleti – spiega ancora Danesh –. Da una parte, la recente legge contro il caporalato, voluta in particolare dalla Cgil, che ha reso questa forma di reclutamento della manodopera un vero e proprio reato, pur mancando della parte che tutela i lavoratori che denunciano. Dall’altra, la normativa 52 della Comunità europea, che fa sì che il lavoratore che dimostra di essere sfruttato può richiedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari. In questo caso, c’è tuttavia da dire che l’Italia ha posto dei termini decisamente stringenti per ottenere il riconoscimento, negando di fatto la tutela a molti. Una tutela che invece dal versante sindacale è richiesta a gran voce, insieme a una più generale domanda di partecipazione e alla possibilità di votare e di collaborare con le istituzioni del paese dove si vive e si lavora”.