Il governo ha rilanciato i “positivi” risultati per l'Italia nella classifica, stilata dalla Banca Mondiale e resa nota il 28 ottobre, del rapporto “Doing Business” giunto alla sua tredicesima edizione, che analizza e classifica l'ambiente economico di 189 paesi del mondo. Il merito della risalita dalla 56ma alla 45ma posizione, con un recupero, quindi, di 11 posti rispetto allo scorso anno, sarebbe in particolare del Jobs Act.

Mancano i dati sulla regolazione del mercato del lavoro

Peccato che la Banca Mondiale, raccogliendo finalmente le osservazioni e le vibrate proteste del movimento sindacale internazionale, guidato dalla Confederazione internazionale dei sindacati Ituc-Csi, abbia smesso di inserire i dati sulla regolazione del mercato del lavoro – pur raccolti e presentati – tra i criteri di misurazione della classifica di “Doing Business”. Peraltro, la risalita nella controversa classica della banca Mondiale era cominciata già nel 2013 con un “balzo” dall'87mo al 73mo posto, e un'ulteriore risalita, lo scorso anno, al 56mo.

Sarebbero, quindi, altre le “riforme” che hanno portato al miglioramento dell'indice di competitività del nostro paese. Il rapporto “Doing Business”, infatti, misura sinteticamente la situazione dei singoli paesi su 10 indicatori (tra parentesi la posizione ottenuta quest'anno dall'Italia): far partire un'azienda (50), richiedere i permessi di costruzione (86), ottenere l'elettricità (59), registrare un atto di proprietà (24), ottenere finanziamenti (97), proteggere gli azionisti di minoranza (36), pagare le tasse (137), far applicare i contratti (111), commerciare attraverso le frontiere (1), risoluzione delle insolvenze (23).

Per l'Italia si tratta del miglioramento più sensibile tra i grandi paesi dell'Eurozona, rispetto ai quali resta comunque una evidente distanza. Infatti, prendendo i 19 paesi della zona euro nel loro complesso, l'Italia presenta ancora una valutazione inferiore a rispetto a ben 14 partner.

Nella graduatoria mondiale, che anche quest'anno è guidata da Singapore e Nuova Zelanda, la Francia sale di quattro posti, collocandosi 27ma, la Germania peggiora di una posizione scendendo a quota 15, mentre la Spagna resta stabile al 33mo posto.

Nell'ambito dei paesi del G7 l'Italia è ancora quello più basso in classifica: il meglio piazzato è il Regno Unito (sesto posto), seguito dagli Usa (7mo), dal Canada (14mo), dalla Germania (15ma) dalla Francia (27ma) e dal Giappone (34mo).

I paesi "migliori" dove sindacato e contrattazione sono repressi o vietati

Secondo la Banca Mondiale il miglioramento dell'Italia discenderebbe, in particolare, dalla riforma della giustizia civile, che avrebbe reso più facile rispettare i contratti introducendo la notifica telematica obbligatoria degli atti, semplificando le regole del processo telematico e automatizzando il processo dell'esecuzione. Non manca certo l'apprezzamento dei neoliberisti di Washington per il Jobs Act, che, secondo la Banca Mondiale, “semplifica le regole di licenziamento e incoraggia la conciliazione extra-giudiziale, riducendo i tempi e i costi della risoluzione delle cause lavorative”. D'altra parte, l'opposizione sindacale all'inclusione di una graduatoria sulla “flessibilità del mercato del lavoro” e alla sua considerazione nell'indice “Doing Business” derivava proprio dal fatto che i paesi “migliori” risultavano non a caso essere quelli dove sindacato e contrattazione sono repressi o vietati come Georgia, Uzbekistan, Colombia, solo per citarne alcuni.

Più in generale, dal rapporto di quest'anno emerge che i paesi in via di sviluppo hanno accelerato il passo delle loro riforme economiche durante gli ultimi dodici mesi. In particolare 85 paesi in via di sviluppo hanno attuato 169 riforme nel periodo in questione a fronte delle 154 riforme dello scorso anno. Secondo la Banca Mondiale, i maggiori progressi si sono realizzati in Costarica, Uganda, Kenia, Cipro, Mauritania, Uzbekistan e Kazakistan.

Anche i paesi ad alto reddito hanno camminato nella direzione delle riforme, attuandone 62, che portano il totale delle riforme nel mondo a quota 231 in 122 dei 189 paesi considerati.

Naturalmente, resta da vedere quanto il giudizio della Banca Mondiale sulla bontà di queste riforme si rifletta realmente in una crescita economica inclusiva e a vantaggio della maggior parte dei lavoratori e dei cittadini.

* Fondazione Giuseppe Di Vittorio