Innanzitutto è un libro sul lavoro. E in particolar modo sul lavoro degli ultimi della terra, come li avrebbe chiamati Frantz Fanon. "La rivolta dei migranti. Un movimento globale contro la discriminazione e lo sfruttamento" di Vittorio Longhi, edito da :duepuntiedizioni (euro 15), dimostra il livello di abuso e sfruttamento e il potenziale dirompente delle lotte degli immigrati e delle immigrate in quattro paesi - Golfo Persico, Stati Uniti, Francia e Italia. E lo fa con uno stile che è insieme giornalistico e narrativo. Mai pedante, Longhi non si ferma alla cronaca delle vicende raccontate, ma va oltre: indaga il profilarsi di un mutamento di alcune "civiltà chiuse", che resistono ancora con frontiere e leggi speciali all'inevitabile e unica globalizzazione auspicabile, quella dei diritti.

Da quale riflessione – chiediamo all’autore - è nata l'idea cardine del libro, ovvero che esista un movimento globale contro discriminazione e sfruttamento?

E’ semplice: c'è molta letteratura sulla migrazione e sulle violenze che sono costretti a subire i migranti in molte parti del mondo, ma non esiste quasi niente sulla loro capacità di risposta e resistenza a questa situazione. Quello che mi interessava era analizzare questa risposta attraverso una prospettiva di sistema e globale, per capirne i contorni e la portata. Sono partito analizzando le condizioni di vita e gli abusi perpetrati ai migranti in quattro Paesi, ma mi sono subito reso conto che i confini della mia ricerca erano molto più estesi di quelli geografici.

Partendo dagli abusi: cosa hanno in comune i casi che tu hai preso in considerazione?

La mia descrizione si incentra come dicevo su quattro percorsi migratori: dal Sud-Est verso i paesi ricchi del Golfo, dall'America Centrale agli Stati Uniti e dall'Africa verso Italia e Francia. Questi contesti hanno storie politiche-economiche e sistemi legislativi diversi tra di loro. L'elemento comune però è come i diversi sistemi convergano tutti verso un unico modello: quello del lavoratore ospite. Tutti trattano la migrazione come temporanea, la considerano semplice forza lavoro che si utilizza e si rimanda indietro come vuoto a rendere, a prescindere dal progetto di vita, o meglio dai tanti progetti di vita che ci sono dietro.

Come dovrebbe essere considerata invece la migrazione per eliminare o limitare gli abusi?

Innanzitutto l'immigrazione è gestita ancora dalle nazioni come fenomeno temporaneo ed emergenziale, qualcosa che non riguarda il Paese che accoglie ma quello di provenienza. Invece la novità sarebbe considerare la migrazione per quello che è, ovvero come mobilità necessaria di persone che lavorano, un fenomeno fisiologico nel lavoro di oggi.

In Europa come viene affrontato il tema del lavoro migrante?

In generale, si riscontra l'assenza di una governance internazionale e regionale. In Europa mancano infatti politiche efficaci sul lavoro migrante e questo vuoto politico dimostra quanto i singoli Stati dell'Unione facciano difficoltà a cedere sovranità su questo tema. Neanche le diverse agenzie delle Nazioni Unite che si occupano di migrazione riescono a imporre ai governi di mettere al centro i diritti, così da considerare l'immigrazione come una sorta di bene comune internazionale e non uno spostamento da subire.

Che tipo di risposta è quella che tu hai individuato allo sfruttamento del lavoro?

È una risposta globale, si tratta di un movimento plurale non coordinato, che segue strade diverse ma che converge sugli stessi argomenti e sugli stessi strumenti di lotta. I lavoratori vivono situazioni di auto discriminazione perché non pensano neanche di poter rivendicare condizioni di vita migliori. Oggi però sta emergendo una nuova generazione di migranti, e il caso francese lo rivela, che ha una presa di coscienza diversa dei suoi diritti. La Rete, ovvero internet, e le reti che si sono stabilite tra i lavoratori, creano una coscienza collettiva anche prima del processo migratorio. Oggi la migrazione è più circolare e frequente di 50 anni fa e questa relazione "a rete" ha modificato la stessa cultura che si portano dietro i migranti, che sempre più spesso è una cultura comunitaria.

Il sindacato che ruolo ha o potrebbe avere in questo cambiamento?

Un ruolo sicuramente importante, ma soprattutto un grande vantaggio. Questa capacità di reazione dei migranti nasce innanzitutto da una loro diversa predisposizione culturale che ha una base comunitaria e rivendicativa. Tutto questo porta grandi benefici ai sindacati dei Paesi di destinazione, soprattutto a quelli dei Paesi avanzati che soffrono di individualismo, passività e declino della partecipazione. Negli Stati uniti questo processo è stato molto chiaro, la comunità dei latini ha rivitalizzato il sindacato e ha portato nuova linfa alle istanze sociali che stavano morendo. Grazie al loro apporto molte battaglie sono state vinte. E questo è solo uno dei tanti contributi che i migranti portano alle società di destinazione. L'Italia, ad esempio, è un terreno fertile per la cultura rivendicativa, perché i sindacati sono ancora molto forti e radicati. Questo sempre che le organizzazioni sindacali siano in grado di capire il mutamento, di interpretarlo e che non si chiudano di fronte alla forte domanda di rappresentanza dei lavoratori migranti. La Cgil, e penso per esempio alla Flai e alla sua battaglia contro il caporalato, può fare tanto in questo senso.