Non c’è più Francesco Rosi, uno dei più grandi registi italiani del secondo Novecento. L’autore napoletano è scomparso a 92 anni. Nella sua lunga filmografia ha segnato almeno 20 anni del nostro cinema: due decenni complessi, i Sessanta e i Settanta, su cui Rosi ha impresso un marchio indelebile. E’ stato un maestro del quel cinema sociale, il maggiore insieme ad Elio Petri, con cui ha condiviso molto tra cui l’attore simbolo del film inchiesta Gian Maria Volontè. L’opera più nota di Rosi, Le mani sulla città, è oggi sullo scaffale dei cinefili accanto a La classe operaia va in paradiso: i due film vinsero la Palma d’Oro ex aequo al Festival di Cannes 1972.

La sua biografia parte da aiuto regista di Luchino Visconti fino alla nascita e sviluppo del suo stile inconfondibile. Ma più che la vita ricca e piena, preme ricordare ciò che Rosi è stato nella cultura italiana. In tutti i suoi film ci ha invitato a non fermarsi all’apparenza, guardare dietro alle questioni, scavare in ciò che non torna. Non accettare le versioni ufficiali, quello che dicono i governi, respingere la retorica del potere e tentare di arrivare alla verità nelle questioni. Non guardava in faccia nessuno Rosi, evitava la semplificazione per dire cose scomode e spiazzanti: così la parabola del costruttore edile Edoardo Nottola ne Le mani sulla città, che cambia schieramento (da destra al centro) ma continua nella speculazione edilizia, nel costruire palazzi che crollano portandosi dietro molte vite. Una situazione trasversale perché, come dice la didascalia, “personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. E’ proprio questo il punto: il regista cercava sempre la verità “sociale e ambientale”, in questo ha visto il futuro ovvero il nostro presente. L’“accordo” stretto da Nottola con la nuova giunta comunale per proseguire le attività illegali ricorda da vicino le intercettazioni del caso “Mafia Capitale” e gli scandali di Roma. Cinquant’anni dopo è un film tragicamente attuale, appena proposto per la prima volta in DVD da Mustang Entertainment pochi mesi prima della morte del regista.

Ma Rosi non è solo il suo capolavoro. Ripassando la sua filmografia, troviamo tanti altri spunti meno conosciuti ma non minori: le biografie di Salvatore Giuliano e Lucky Luciano, ovviamente, ma anche Cadaveri eccellenti del 1975, dove l’ispettore Rogas (Lino Ventura) riceve pressioni per incastrare per omicidio alcuni comunisti innocenti. Un affresco che fece arrabbiare la Democrazia cristiana visto che, in modo troppo “vero”, raccontava la tendenza ad attribuire tutti i mali alla sinistra di quegli anni. E poi il poco noto Il momento della verità, storia del contadino Miguel che lotta per uscire dalla povertà e diventare torero. E ancora la prima guerra mondiale in Uomini contro, la trasposizione da García Márquez in Cronaca di una morte annunciata, la classe di Philippe Noiret diretto in Tre fratelli. Il cineasta ci ha dato anche una lezione di narrativa: a differenza di altri, l’impegno civile non ha mai soffocato il piacere dell’affabulazione, il gusto di raccontare una storia. I suoi film sono tesi e avvincenti, coinvolgono il pubblico a prescindere dal tema che si racconta: sono – di volta in volta - gialli politici, film di guerra, drammi sociali. Trovano la sintesi visiva e perfino la poesia: come scordare il finale de Il caso Mattei, dove Enrico Mattei (Volontè) presidente dell’Eni prima della morte guarda la luna e dice: “Chissà se c’è il petrolio anche lassù”…

Francesco Rosi ha vinto tutto. Ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia 1963 con Le mani sulla città, superando in concorso registi come Louis Malle e Alain Resnais. L’anno prima aveva ottenuto l’Orso d’argento a Berlino come miglior regista per Salvatore Giuliano. Poi ha vinto la Palma d’Oro 1973 insieme a Petri, come detto, l’Orso alla carriera nel 2008 e il Leone d’Oro alla carriera nel 2012. Non si contano gli omaggi espliciti o meno in tutto il cinema mondiale: ne I cento passi Peppino Impastato proietta al cinema Le mani sulla città. Ma questo è solo un esempio. Tanti lo hanno seguito, anche insospettabili: c’è molto Rosi nei film di inchiesta di Robert Redford.

Ricordo Rosi nell’edizione del Festival di Venezia di tre anni fa. Il premio gli fu consegnato da Tornatore nella Sala Grande del Lido veneziano. Il regista, ormai anziano e fuori dal cinema dagli anni ’90, era visibilmente contento e si limitò a commentare: “Con i miei film ho cercato di anticipare certe necessità di conoscenza del nostro paese. E’ un premio importante che arriva nel momento giusto, nella vita non si sa mai”. E la necessità di conoscenza era la sua stella polare: voleva vederci chiaro nel caso Mattei, nei palazzi che cadono, nelle contraddizioni italiane. L’inchiesta per lui era il centro di tutto. Erano altri tempi, ma è stato il nostro Michael Moore.