Il grande tema di questi anni è quello delle discriminazioni e delle disuguaglianze, in continuo aumento. Le più vistose riguardano le donne, tanto che Christine Lagarde, alla guida del Fondo monetario internazionale, parlando delle diseguaglianze economiche, ma non solo, tra uomini e donne, ha recentemente affermato che "c'è una cospirazione contro le donne". 

Discriminazioni e disuguaglianze di genere che si riflettono anche nel forte divario pensionistico tra uomini e donne: in Italia nel 2014 mediamente le pensioni degli uomini sono risultate del 40% circa più alte rispetto a quelle donne. Inapplicata “l’opzione donna” - ovvero la possibilità per le lavoratrici di andare in pensione dai 57 anni in poi, ma con l’assegno calcolato con il sistema contributivo - in vigore dal 2004 e finanziata a tutto il 2015. Norma che penalizza pesantemente le donne che vi fanno ricorso ma che, dopo la legge Fornero, è stata per molte l'unica via d'uscita. E non si applica perché l'Inps ne ha dato un'interpretazione sbagliata. Da allora è iniziato un balletto senza fine. Non sarebbe l’ora di dare una risposta definitiva?

L'effettiva parità di genere è dunque molto lontana e per raggiungerla mancano la volontà politica e una visione d'insieme, che permettano l'elaborarazione di politiche mirate per creare lavoro, investimenti, servizi e tutele sociali. Complessivamente, ritardi, lentezze, indifferenze, approcci sbagliati, mancanza di un quadro organico di interventi, continuano a peggiorare la condizione delle donne nel nostro Paese nell'intero arco di vita, fino alla pensione. La disoccupazione femminile è al 46,5%, al Sud le donne tra i 15 e i 34 anni occupate sono solo una su cinque, il gap salariale è al 30%. E sono sempre più elevate le percentuali di lavoratorici con part time involontari. Il sistema di protezione sociale, sempre più scarso e poco efficiente, concorre poi a peggiorare la precarietà e l'esclusione. Troppe lavoratrici madri pagano il prezzo di un welfare svuotato e di una rete di servizi inadeguata ai bisogni con costi troppo elevati. Dopo la maternità in Italia continuano a lavorare solo 43 donne su 100. 

Secondo le ultime stime dell’Osservatorio nazionale mobbing 4 madri su 10 vengono costrette a dare le dimissioni per effetto di “mobbing post partum”. Almeno trecentocinquantamila sono quelle discriminate per via della maternità o per aver avanzato richieste per conciliare il lavoro con la vita familiare. Le donne non riescono più a mettere d'accordo lavoro e famiglia e c’è un legame diretto tra le difficoltà di conciliare la vita privata, quella lavorativa con la povertà e l’esclusione sociale. Le politiche di condivisione, che ancora chiamiamo conciliazione, sono il presupposto necessario per contrastare e prevenire la povertà e l’esclusione sociale.

Molto chiaro a questo proposito Eurostat: “Se al primo posto nella correlazione positiva con l'offerta femminile vi è la spesa pubblica per i servizi di cura, è evidente che questa dovrebbe essere la prima scelta politica”. Concetto ribadito anche dall'Ocse, che riguardo la situazione italiana ha insistito sulla necessità di “potenziare i servizi di assistenza all'infanzia - causa anche del tasso di natalità molto basso - e di assistenza ai genitori anziani, che visto il ruolo tradizionale della donna in Italia, è altrettanto importante”. Ma “in un quadro organico di interventi.” Perchè un provvedimento isolato da politiche che dovrebbero essere tra loro coordinate, rischia di essere scarsamente incisivo. 

Prendiamo ad esempio i congedi parentali: l’arrivo di un intervento nel decreto conciliazione all’interno del Jobs Act, presentato dal governo come innovativo, in termini di work life balance, aumenta (di poco) la flessibilità ed estende l'arco temporale in cui possono essere utilizzati i congedi parentali (porta da 3 a 6 anni del figlio la possibilità di usufruire del congedo parentale retribuito al 30% e da 8 a 12 quello non retribuito, e l'estensione obbligatoria per le lavoratrici autonome da tre a 5 mesi). Ma la sensazione che si ha leggendo il provvedimento è che il ruolo del padre abbia una funzione di “sostituzione” della madre nella cura in casi estremi (morte o grave infermità). Il punto vero è che la conciliazione tra vita lavorativa e vita privata necessita di un insieme di misure in connessione tra loro, come chiediamo da sempre. Azioni anche sul versante culturale, perché la diffusione dei congedi riservati ai padri è determinata dalle politiche economiche, ma è soprattutto culturale. 

Rimanendo in tema di congedi, anche l'Europa ha fatto un passo indietro sui diritti delle donne. A luglio la Commissione Ue ha ritirato la direttiva presentata nel 2008 con lo scopo d’istituire delle regole comuni in tutta l’Unione sui congedi parentali e con l’obiettivo di aumentare il periodo di congedo di maternità volontario da 14 a 18 settimane, di cui sei 

L'unica nota positiva in questa travagliata estate è stato il ripristino di una norma di civiltà contro le dimissioni in bianco. La legge del 2007 era stata abrogata a pochi mesi dalla sua entrata in vigore nel giugno del 2008 dal governo Berlusconi. Ora, dopo sette anni di battaglie torna in vigore, seppure in toni un po' troppo sfumati, per esempio non c'è traccia di sanzioni per chi viola la norma. C'è molto da fare e tanti sono gli attori sociali che possono contribuire a favorire un maggior equilibrio di genere nel mondo del lavoro; fra questi il sindacato, che attraverso la contrattazione, rappresenta uno dei soggetti che più e meglio possono agire da protagonisti nel favorire la diffusione e la promozione di “buone pratiche” di genere.

Come nel caso Poste in un paio di anni fa, quando la Slc-Cgil, categoria dei lavoratori dello spettacolo - ad alta presenza femminile, che si misura costantemente con la contrattazione di genere e il contenimento delle discriminazioni – ottenne che si rivedesse un accordo sul premio di risultato, che escludeva dal bonus presenza le lavoratrici in astensione obbligatoria per maternità, 'colpevoli' di essere assenti per il periodo previsto dalla legge. La Slc vinse la battaglia.Lo scorso febbraio è stata la volta della Fillea-Cgil nel settore del legno, i sindacati di categoria Cgil, Cisl,Uil e Federlegno hanno sottoscritto per la prima volta un accordo con nome riguardanti la lotta alle molestie sessuali.Nel 2014 la Filt-Cgil (categoria dei trasporti) del Veneto ha firmato i primi sette accordi aziendali o di gruppo per prevenire e contrastare le molestie nei luoghi di lavoro. Un percorso che nelle intenzioni della Filt punta ad estendere le intese al maggior numero di aziende possibile.

A luglio, nella piattaforma contrattuale del settore chimico-farmaceutico, tra i capitoli di rilievo i sindacati di categoria Cgil,Cisl,Uil hanno previsto quello dei diritti e delle tutele: dai temi dello smart-working a quelli del lavoro flessibile, al miglioramento delle norme dei congedi (per quello di paternità si propongono 2 giorni in più di permesso retribuito).Sono solo alcuni esempi dell'importanza del ruolo del sindacato per cambiare la situazione nei posti di lavoro e più in generale delle politiche. In gioco non c'è soltanto l'affronto ai principi fondamentali della Costituzione, ma il problema tocca tutti, perché una cultura del lavoro sbagliata impoverisce le imprese, impoverisce le donne, impoverisce gli uomini.