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Era gremita oggi (lunedì 15 aprile) a Roma la sala dell’auditorium di via Rieti, dove si è tenuto l’attivo unitario nazionale della sanità privata, e in molti sono stati costretti a seguire i lavori dai monitor all’esterno. Dodici anni senza un rinnovo contrattuale, un divario salariale – e non solo – che relega i lavoratori del privato a una condizione subalterna e svantaggiata. Il privato è la cenerentola del sistema sanitario, ci hanno raccontato. Ma loro non ci stanno a indossare ancora quei panni e chiedono a gran voce lo stesso trattamento dei colleghi del pubblico: non solo un rinnovo, ma un contratto unico per tutti.
Simone Faini, Firenze
Lavoro al Centro terapeutico europeo (Cte), una struttura per la cura dei disabili. Ho sempre cercato di fare del mio meglio, ho scritto una tesi sul mio posto di lavoro, ho fatto ricerche sull’infermieristica nella disabilità e adesso sto lavorando a un libro su quest’argomento, perché il primo obiettivo è prendermi cura delle persone, che è poi l’obiettivo di tutte le figure professionali che lavorano in un centro di cura.
Nonostante l’impegno continuavo a vedere le persone di cui mi prendo cura stare male. Sono convinto che finché non si cambia lo stato di salute del lavoratore non si può pretendere di curare bene le persone. Per questo ho iniziato il mio percorso come delegato sindacale, un’attività nella quale sto mettendo il cuore. I risultati ci sono, anche se il potere che ha il datore di lavoro, la libertà di plasmare la sua struttura e organizzare le attività, è sempre preponderante e instaura dei meccanismi che sono difficili da cambiare. Il mio lavoro è fare l’intermiere, e vorrei farlo bene: se avessi potuto farlo, adesso non sarei qui. Se sono qui è per rispondere a un’esigenza profonda di cambiare le cose.
Maria Rosaria Viglione, Roma
Sono responsabile aziendale di Villa Tiberia Hospital, faccio parte del direttivo regionale della Cgil di Roma e Lazio. La sanità privata è considerata la cenerentola del sistema sanitario, ma noi lavoratori non ci sentiamo affatto così, perché quello che forniamo è un servizio di assistenza di alto livello. Nella sanità privata ci troviamo a lavorare di più, perché abbiamo un responsabile diretto, non dobbiamo rendere conto soltanto al caposala o al primario di un reparto, ma anche al datore di lavoro: noi dobbiamo rendere, produrre, a volte anche a discapito del paziente, perché come noi siamo considerati numeri, capita che siano considerati numeri anche loro.
Non possiamo dire di no ai doppi turni, non possiamo dire di no a una notte in più, altrimenti rischiamo di trovarci fuori al primo problema che si presenta in azienda o di non vederci riconosciuto, per rappresaglia, il diritto di andare in ferie. Ma la grande ingiustizia che subiamo è non vedere adeguati i nostri stipendi a quelli del pubblico. C’è un grande divario economico: 12 anni senza rinnovo contrattuale significa penalizzare gravemente i diritti dei lavoratori.
Lavoratori che seguono costantemente corsi di aggiornamento per dare sempre un’assistenza di qualità, in linea con le nuove tecnologie disponibili. Ci siamo seduti al tavolo contrattuale diverse volte con le rappresentanze di categoria: ogni volta la controparte ha lasciato il tavolo quando la questione economica, la dignità e il rispetto dei lavoratori venivano tirati in ballo. Siamo pronti allo sciopero generale, anche se questo comporterà disagio per i pazienti: ci dispiace, ci scusiamo in anticipo, ma questa volta non ci fermeremo.
Marco Orsini, Roma
Sono un infermiere dell’Ospedale Cristo Re. Sono anni e anni che il nostro contratto è scaduto: è fermo a 12 anni fa per la maggior parte delle strutture, addirittura a 17 per il nostro ospedale. Quello che bisogna aver chiaro è che noi, operatori della sanità privata, facciamo lo stesso lavoro degli operatori della sanità pubblica. Eroghiamo lo stesso tipo di servizio, ma abbiamo dei salari che sono fermi da 17 anni. Per le famiglie di questi lavoratori diventa difficile andare a fare la spesa al supermercato, mettere benzina nell’auto, e soprattutto, mettere in condizione i propri figli di avere un futuro.
Poniamo le basi per avere un contratto unico nella sanità, per evitare che ci siano operatori di serie A e di serie B: la sanità è una, anche il contratto deve essere lo stesso per tutti. C’è anche un problema numerico: sono circa 29 mila gli addetti in meno all’interno della sanità privata. Ma anche se siamo in pochi, facciamo il doppio per evitare che i pazienti ne possano risentire. Spero davvero che non solo il sindacato, ma i datori di lavoro, la Regione, il governo, possano lavorare tutti insieme, dopo tanti anni, al cambiamento necessario nella sanità privata.
Nadia Lazzaroni, Brescia
Lavoro presso la Casa di cura Poliambulanza, una delle tante strutture private del nostro territorio. In Lombardia è stata fatta una politica molto spinta verso la sanità privata: più del 50 per cento delle prestazioni di pronto soccorso a Brescia sono svolte dalle case di cura private. Noi lavoratori offriamo un servizio di eccellenza, ci formiamo a spese nostre nella maggior parte dei casi, perché non abbiamo le Ecm pagate come nel pubblico, e abbiamo degli svantaggi economici legati al contratto.
Lavoro nella sanità privata dal 1992 e ho visto due rinnovi contrattuali, l’ultimo 12 anni fa. Abbiamo uno stipendio che si abbassa invece di alzarsi. Un infermiere al suo ingresso in una clinica privata guadagna 1.350 euro al mese: io sono un’infermiera con 31 anni di servizio e guadagno 1.520 euro al mese. Questo è il mio stipendio.
Come Funzione pubblica Cgil vorremmo che fosse siglato un contratto di filiera e che tutte le persone che lavorano nella sanità venissero pagate allo stesso modo, perché i soldi che vengono dati ai nostri datori di lavoro sono soldi pubblici, sono soldi nostri, e non è giusto permettere a cliniche e ospedali privati di guadagnare sulla pelle dei lavoratori. Teniamo conto che in questi 20 anni abbiamo collaborato a far diventare queste strutture da accessorie al servizio sanitario nazionale a sostitutive: nel 1992 la mia clinica contava 150 dipendenti e adesso ne conta 1.800, aveva 50 posti letto e adesso ne ha 280. Abbiamo sale operatorie, neurochirurgia, pronto soccorso: forniamo l’eccellenza, ma noi lavoratori non abbiamo nulla.
Claudio Luciani, Brescia
Lavoro alla Casa di cura Poliambulanza da 21 anni e sono Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Oltre al grande smacco di lavorare da 12 anni senza un rinnovo contrattuale, sono costretto a vedere sempre la struttura ai minimi di organico, nei reparti e nei servizi. Anche se la nostra azienda ha fornito ai lavoratori i dispositivi di protezione e di sicurezza personale necessari, di fatto non abbiamo sempre la possibilità di utilizzarli: per riuscire a svolgere il lavoro quotidiano, ai minimi di organico e nel rispetto dei tempi stabiliti, siamo spesso costretti a non utilizzare la strumentazione di sicurezza predisposta.
L’azienda risparmia su tutto, sul numero di lavoratori necessari a svolgere il servizio e sui tempi per compierlo. Si fa bella nel dire che ha messo a disposizione tutto quello che serve, ma non dà l’opportunità di usarlo. Oltre a essere sottopagati lavoriamo anche in un regime di sicurezza limitato, perché non stanno investendo nel numero dei dipendenti quello che stanno investendo nell’azienda.