“Il lavoro prima di tutto”. Quello fatto di nomi, cognomi, storie personali e collettive che si incrociano intorno a un unico tema: la crisi e il desiderio di uscirne insieme. Il 20 ottobre a piazza San Giovanni, a Roma, a manifestare con la Cgil ci saranno loro, i lavoratori e le lavoratrici delle tante vertenze aperte da mesi e persino da anni. Perché se l’unione fa la forza, la solitudine fa paura e per combatterla bisogna sentirsi ascoltati. “Ci sarà un mio collega della Vinyls di Porto Marghera a parlare dal palco della manifestazione e questo mi fa piacere – racconta Lucio Sabatin, 53 anni, dall’80 operaio specializzato nel settore petrolchimico –, perché quando perdi il lavoro perdi anche la dignità, ti senti senza voce”.

Farsi sentire, allora, significa riaffermare la propria identità, oltre alla dignità. La sua storia è simile a quella di altri 140 compagni di lavoro alla Vinyls, che ha sedi anche a Ravenna e Porto Torres, “sopravvissuti” alla grande crisi che ha colpito l’intero settore chimico italiano. “Eravamo in 250 a lavorare in questo stabilimento prima che l'Eni, nostro principale partner, decidesse di dismettere la produzione di cloro in Italia – prosegue il lavoratore –. Producevamo uno dei migliori pvc esistenti in Europa, un'eccellenza. Poi a causa della mancanza di una seria politica industriale, le multinazionali hanno deciso di andarsene e le tante proposte d’acquisto della nostra azienda si sono dissolte nel nulla".

Prima c’è stata l’araba Ramco, poi il fondo svizzero Gita, ora un fondo brasiliano che stenta a farsi riconoscere. La storia della Vinyls è ridotta tutta in una battuta sussurata tra i denti: “Tutti ci vogliono, ma nessuno finora ci compra. Almeno fino a quando il ministero non assicurerà ai compratori le dovute garanzie e non vigilerà sulle loro reali intenzioni di investimento”.

La settimana scorsa Lucio e atri suoi colleghi sono stati costretti a salire sul campanile di San Marco, a Venezia, per farsi ascoltare: “Non veniamo pagati da 5 mesi e questo gesto estremo, l’ultimo di una lunga serie di occupazioni, è servito per avere finalmente un incontro al ministero dello Sviluppo economico. Ma mi domando: che paese è quello in cui i lavoratori sono costretti ad arrampicarsi su torri alte 176 metri per farsi ascoltare”.

Fabrizio Musetti lavora all’Ilva di Taranto da 11 anni: “Sono stanco – dice – del ricatto a cui siamo sottoposti, una continua falsa scelta tra lavoro e salute. La magistratura ha disposto che l’azienda si adegui spendendo dei soldi per il risanamento della città che finora ha inquinato. Bene: è quello che deve succedere”. La popolazione, nel frattempo, continua ad ammalarsi in una delle zone più inquinate d’Europa, mentre i lavoratori difendono strenuamente il posto e il diritto alla salute. Dal capoluogo jonico a Terni.

“Immaginate una zona industriale di una piccola cittadina, un tempo floridissima, con più di 2.850 operai in cassa integrazione a rotazione, che arrivano a 4.000 se si considera l’indotto. Per la maggior parte sono uomini, con una media di 35 anni di età e quasi tutti con almeno un figlio piccolo da mantenere a testa, una scuola o una casa da pagare. Provate ora a chiedervi, a livello sociale, che luogo questo possa essere, quale impatto devastante possa avere tutta questa disoccupazione e incertezza sull’intero tessuto cittadino. E poi venite a Terni a vedere con i vostri occhi”.

Michele Di Fabio lavora da 13 anni alla Thyssen umbra, dove si produce – o meglio si produceva – acciaio inossidabile di qualità. Ci tiene a sottolineare che la sua azienda è unica nel suo genere: “Produciamo a ciclo continuo integrato – spiega –, ci occupiamo cioè di tutta la lavorazione: dal rottame di alta qualità che viene squagliato fino al rotolo di acciaio che viene lavorato e laminato a seconda dell’esigenza del cliente”.

Solo che la Thyssen ha deciso di dismettere l’acciaio
inossidabile in Europa e di dedicarsi al settore tecnologico e ambientale. Per questo ha creato la società Inoxum, che in realtà è una scatola vuota e senza risorse, sperando di trovare un partner che la rilevi. “Dopo tanto è arrivata una società finlandese che ha fatto una proposta di acquisto. Abbiamo festeggiato in grande, con tanto di parata e con il vescovo e le autorità – racconta Di Fabio –, ma si trattava solo di chiacchiere: nella realtà si sono già tirati indietro. A novembre l’Antitrust metterà in vendita il sito e se, come sembra, il nostro ciclo di produzione verrà spezzettato, sarà la nostra morte”.

Gian Marco Mucci lavora invece all’Eurallumina di Portovesme, in Sardegna. In fabbrica ci sta dal ’98: la sua è una “storia di famiglia”, legata a doppio filo al Sulcis Iglesiente, un territorio di lunga tradizione estrattiva mineraria, ora tra i più poveri d’Europa. Suo padre, suo nonno, il suo bisnonno: tutti minatori. “Per me – racconta con un filo d’ironia – è stato naturale rimanere nell’ambiente”. Poi la grande crisi: il settore minerario smette di essere strategico per il paese. Chiudono le miniere, entrano in crisi le fabbriche. Eurallumina è tra queste. “La nostra è una raffineria di ossido di alluminio, da cui si produce l’alluminio primario, quello che si usa per gli alimenti. All’inizio era inserita in un intelligente progetto di filiera. Accanto alla nostra fabbrica c’era l’Alcoa, che trasformava il nostro ossido in alluminio, e poi un’altra azienda, l’Ila, che faceva i laminati. Ora all’Ila sono fermi da 5 anni in attesa di riconversione e 280 persone aspettano di poter lavorare”.

Loro dell’Eurallumina invece sono fermi da 4 anni: “Eravamo 450 operai prima della crisi, ora siamo 350. Senza contare gli oltre 300 dell’indotto, tra ditte in appalto, di pezzi di ricambio, di pulizie”. Il lavoro è a rotazione, 15 giorni ogni tre mesi per mantenere gli impianti funzionanti. La cassa integrazione è di circa 700 euro al mese. Una miseria. “La causa è il crollo del prezzo del metallo, che dal 2008 al 2009 è passato da 2.300 dollari a tonnellata ai 1.800-1.900 attuali. La cosa che più fa arrabbiare però è che queste fabbriche erano a partecipazione pubblica, ma lo Stato non le ha mai utilizzate per produrre veramente e in modo competitivo. Sono diventate con il tempo dei carrozzoni politici”. Una scelta difficile da comprendere, se si considera che in Italia non esistono altre produzioni di alluminio e che senza il Sulcis il fabbisogno nazionale di laminati deve essere soddisfatto all’estero.

“Noi qua in Grecia ci siamo già – si arrabbia Gian Marco –. Per questo il 20 saremo a Roma, nonostante a noi costi molto venire dalla Sardegna. Lo faremo per farci sentire, ancora una volta”. Ma non c’è solo l’industria. Nell’Italia dello scontento e della crisi, le cose non vanno affatto bene nemmeno per i professori, che il 12 ottobre si sono già fermati per uno sciopero generale indetto dal sindacato di categoria della Cgil. 

Spiega Elisa Marone, insegnante di italiano in una scuola media romana: “Mentre il nostro contratto rimane fermo da anni, il premier Monti annuncia l’aumento delle ore d’insegnamento frontale da 18 a 24, senza però migliorare minimamente la didattica, che resta bloccata sia in numero di ore per classe che in investimenti strutturali da parte dello Stato. Un massacro che eliminerà di botto tanti posti di lavoro a termine e costringerà noi insegnanti di ruolo a fare da tappabuchi, abbassando di conseguenza la qualità dell’insegnamento”.

Il tutto avviene mentre migliaia di precari “si stanno preparando a fare un concorso farsa, basato su criteri opinabili e che non tiene conto delle reali esigenze della scuola, che soffre un’emorragia di posti e di un vero decadimento delle strutture pubbliche”. Ancora più difficile la situazione tra i lavoratori impegnati nell’assistenza sociale. “Noi delle cooperative sociali siamo ormai allo stremo – dice Annalisa Duranti, che lavora a Napoli come assistente al trasporto dei disabili –. Ormai si lesina su tutto: i servizi alla persona, invece di essere considerati strategici per la società, vengono percepiti come un ramo secco da tagliare. A farne le spese sono i soggetti più deboli: disabili, anziani, donne e famiglie di soggetti svantaggiati”. Per lei e i suoi colleghi di ditte in appalto ogni anno cambia il datore di lavoro, ma non lo stipendio: 800 euro al mese per trasportare, accudire, sostenere decine di disabili. Il racconto di Annalisa presenta molti punti di contatto con l’esperienza di Andrea Minturno, che lavora come Osa all’ospedale San Giovanni di Roma, a due passi dall’omonima piazza dove si svolgerà la manifestazione del 20.

“Trasporto persone in barella, ma non solo. Diciamo che faccio un po’ di tutto. Prima lavoravo in una cooperativa, dove ero inquadrato come semplice pulitore, mentre in realtà facevo il portantino a tutti gli effetti. Poi dopo la mia denuncia le cose sono cambiate, ma io e altri colleghi siamo stati mandati via e ora lavoriamo per un altro datore a 1.000-1.100 euro al mese”. Se il turno glielo permetterà, Andrea sarà in piazza: “Lavorare con le persone malate – conclude – a volte è stancante, ma ti dà tante gratificazioni. La cosa tremenda da sopportare, invece, è non avere certezza del proprio futuro”.