La legge 125, approvata l’11 agosto del 2014, introduce esplicitamente il settore privato tra i soggetti chiave della cooperazione internazionale, riconoscendo la potenzialità delle imprese di generare crescita e sviluppo inclusivo e sostenibile nei paesi partner, sia investendo risorse proprie, sia in partenariato con governi, Ong e organizzazioni internazionali. È una vera e propria rivoluzione, se si considera che in passato le imprese private sono state considerate per lo più come soggetti privi di scrupoli quando si tratta di sfruttare lavoro e risorse a buon mercato, avendo come unico orizzonte il profitto.

Ma ne è passata di acqua sotto i ponti, specie da quando la responsabilità sociale ha introdotto un nuovo modo di pensare l’impresa. Così, nell'anno che l’Europa dedica esplicitamente al tema dello sviluppo, la discussione sul futuro della cooperazione per il nostro paese entra in una fase nuova, aprendo una serie di prospettive, ma anche di interrogativi sulla strada che questa voce importante della politica internazionale (e del bilancio nazionale) si appresta a intraprendere dopo una stagione di tagli, spending review e progressivo spostamento degli interventi finanziati dal governo verso la cooperazione sotto l'ombrello militare e, per di più, in un’epoca di piena emergenza immigrazione.

Come risulta dal documento “La cooperazione italiana allo sviluppo nel triennio 2013-2015, linee-guida e indirizzi di programmazione”, le risorse cosiddette “a dono” messe in campo dal nostro paese ammontano a 273 milioni di euro per il 2013, a circa 163 milioni di euro per il 2014 e a circa 159 milioni per il 2015, comprensivi di contributi obbligatori agli organismi Internazionali (Fao, Pam, Unicef ecc.).

Come si vede, dunque, gli stanziamenti continuano a diminuire, anche se da anni il governo italiano promette di ripristinare una soglia minima (0,5 per cento del Pil, rispetto allo 0,7 per cento entro il 2015 posto dagli Obiettivi di sviluppo del Millennio, approvati da tutti i membri delle Nazioni Unite) che dia significato all’impegno del nostro paese su questo fronte, riportandolo in linea con le medie europee.

Ricordiamo che questa soglia ha raggiunto il suo picco storico in Italia nel 1989, con lo 0,41 per cento, ed è attualmente attestata sullo 0,17. La questione però, ha ricordato il viceministro con delega alla Cooperazione Lapo Pistelli intervenendo in un recente seminario su questo tema tenutosi a Roma presso il ministero degli Esteri, non è solo di quantità o di asimmetria, né, come ovvio, di qualità delle risorse, ma anche di prevedibilità e programmabilità. Occorrerebbe, secondo Pistelli, un meccanismo pluriennale automatico in grado di sganciare gli stanziamenti dalle fluttuazioni e dall’imprevedibilità delle leggi finanziarie e di stabilità.

Tanto più che, in un’ottica non più di mero aiuto, ma di trasferimento di know how e sempre più di co-sviluppo e partenariato, la cooperazione non va considerata come voce in perdita, ma come strategia politica ed economica in grado di generare ricchezza. Già oggi la cooperazione incide per lo 0,1 per cento del Pil europeo, ed è destinata a crescere fino allo 0,2 – per dare un’idea, il piano Juncker per rilanciare la crescita economica in Europa mira a produrre un aumento dello 0,3 per cento del Pil europeo – attraverso il meccanismo cosiddetto del blending, cioè un mix di doni e crediti volti a mobilitare gli investimenti privati. Il tutto senza perdere di vista la vera “mission” della cooperazione internazionale, che deve stabilire le migliori strategie per favorire lo sviluppo delle popolazioni svantaggiate, sullo sfondo delle ingiustizie e dei conflitti, delle emergenze ambientali e delle differenze tra nord e sud del mondo.

Dunque, le implicazioni della legge 125 sono di enorme portata, chiamando in causa in primo luogo il ruolo del pubblico, che deve fissare finalità e compiti della cooperazione allo sviluppo, a partire dalla questione delle risorse, dalle priorità e dalle modalità degli stanziamenti, per finire all’individuazione dei paesi e dei settori da privilegiare. E questo richiede anche un riordino e un maggiore coordinamento degli strumenti che, a vario titolo, si occupano di cooperazione (per esempio, le Ong) o di affermazione all’estero del made in Italy (per esempio, l’Ice).

In secondo luogo, si tratta di stabilire principi che rendano vincolante la necessità di coniugare profittabilità e rispetto degli standard etici internazionali, delle compatibilità ambientali (la valutazione dell’impatto ambientale è inserita nella nuova legge) e dei principi di trasparenza e “accountability” (rendere conto). Tali principi sono stati fissati e ribaditi non solo dagli Obiettivi del Millennio, ma anche dalla conferenza sui finanziamenti per lo sviluppo di Monterrey (il cosiddetto Monterrey consensus) del 2002 e dalla seconda conferenza di Doha del 2008, che ha aggiornato la dichiarazione di Monterrey, sottolineando in particolare la necessità di rafforzare la coerenza tra le politiche ai fini della riduzione della povertà. Infine, la Comunicazione della Commissione europea del 13 maggio 2014 e le conclusioni del Consiglio europeo del 12 dicembre 2014, che l'hanno recepita, hanno fatto propri quei principi, oltre a sottolineare il contributo potenziale del settore privato alla crescita inclusiva e alla creazione di opportunità di lavoro e di reddito.
 
In vista del citato seminario di Roma, la rete di Ong Link 2007 ha prodotto un documento intitolato “Cooperazione allo sviluppo, imprese e diritti umani, responsabilità sociale e responsabilità ambientale”, nel quale propone di adottare le Linee guida dell’Ocse destinate alle imprese multinazionali per la definizione dei parametri di accesso delle imprese al sistema della cooperazione internazionale. Le Linee guida offrono raccomandazioni su numerosi argomenti di rilievo, che coinvolgono i diritti umani e l’ambiente, la lotta alla corruzione e le relazioni industriali, e che devono caratterizzare il comportamento delle imprese titolari e di quelle coinvolte a vario titolo, anche al di fuori del contesto della cooperazione internazionale.

Su questi principi il seminario di Roma ha raccolto un’ampia convergenza di tutti i soggetti interessati, pur essendo ben nota la difficoltà di far seguire agli impegni teorici un comportamento coerente, considerando anche il contesto sociale ed economico in cui si andrà a operare. È pur vero che le multinazionali sono spesso le imprese che più rispettano gli standard internazionali, ma in molti casi è vero il contrario, specie quando la catena produttiva si disperde in mille rivoli e rami collaterali. Molte imprese non si preoccupano affatto di promuovere partnership, di trasferire know how o di favorire l’occupazione locale, seguendo un po’ il modello cinese di occupazione e sfruttamento delle risorse nei paesi stranieri, specie quelli africani, senza “sporcarsi le mani”.

Non solo. Resta vivida nella memoria comune la commozione suscitata dal crollo del Rana Plaza a Dhaka in Bangladesh (2013) o dalla denuncia delle condizioni di schiavitù in cui lavorano gli immigrati asiatici impegnati nella costruzione di impianti sportivi in Qatar in vista del campionato del mondo di calcio del 2022. Senza parlare dei casi di sfruttamento del lavoro infantile diffusi in molti paesi asiatici e non. E poi c’è da dire che le piccole imprese, che costituiscono l’ossatura dell’industria italiana, seguono spesso logiche, priorità e comportamenti diversi da quelli delle multinazionali. Se gli affari vanno male, possono trovarsi in difficoltà nel rispettare gli impegni di carattere sociale, quasi alla stregua di un lusso da riservare alla buona stagione. Oppure, a prescindere dalla buona volontà, possono faticare ad adeguarsi interamente agli standard di qualità o ai vincoli imposti dalle convenzioni internazionali.

A questo riguardo, diventa centrale la capacità di controllo e di supervisione, estesa non solo alle imprese che operano in prima persona, ma anche all’indotto e a quelle che operano in subappalto o in sinergia. Il documento di Link 2007 auspica che i decreti attuativi della legge 125 impegnino le imprese a elaborare rapporti attestanti l’applicazione delle Linee Guida dell’Ocse secondo i principi della due diligence. Ma è chiaro che, per integrare l’efficacia delle norme previste, occorre prevedere strumenti adeguati di monitoraggio e verifica, in grado di sanzionare le inadempienze. Su questo terreno potrà rivelarsi utile il ruolo degli organismi internazionali, in aggiunta a quello dei ministeri degli Esteri e dello Sviluppo Economico, nonché il ruolo dei sindacati per la parte relativa al rispetto dei diritti umani e delle condizioni di lavoro.
 
Per quanto riguarda altri due aspetti essenziali e tra loro strettamente connessi, la condivisione del rischio e l’accesso al credito, occorrerà verificare nei fatti l’efficacia degli strumenti di supporto alle imprese – blending, fondi di garanzia, crediti agevolati, senza escludere il ricorso ad altre risorse pubbliche nazionali e internazionali, comprese quelle di carattere finanziario (i fondi europei per lo sviluppo, gli stanziamenti previsti dal Fondo monetario internazionale, ma anche altri tipi di investimento, come i fondi sovrani e i fondi pensione) –, facendo in modo che non si traducano in distorsione del mercato o nella rincorsa verso i paesi e isettori più redditizi a scapito di quelli meno attraenti.

Infine, nel nuovo scenario che si sta delineando, potrà rivelarsi quanto mai prezioso il patrimonio di esperienze che le Ong hanno maturato sul campo. Certo, quello delle imprese e quello delle Ong che già operano nei paesi in via di sviluppo sono due mondi distinti, spesso lontani tra loro. Ma nulla impedisce che ciascuno dei essi metta a disposizione dell’altro conoscenze e professionalità, salvaguardando i rispettivi ruoli e il rispetto dei propri valori.