Oggi parlo a nome di centinaia di lavoratrici e lavoratori che da anni sono il cuore pulsante di un servizio che nessuno vede, nessuno vuole svolgere, ma di cui tutti, ogni giorno, hanno bisogno.

Un servizio che si svolge nell’avanguardia di prefetture e questure, negli sportelli unici immigrazione, il primo e spesso l’unico contatto della cittadinanza con uno Stato che ha una faccia ed è fatto di carne. Eppure noi, che siamo la forza che muove questo meccanismo, continuiamo a essere trattati come strumenti usa e getta, precari senza diritti, senza futuro.

1.100 famiglie

In questi anni, mentre il Paese attraversava crisi ed emergenze, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, noi eravamo lì. Abbiamo lavorato senza sosta, senza certezze, senza alcuna tutela. Abbiamo firmato innumerevoli proroghe indegne, e abbiamo passato 13 mesi (se vi sembran pochi) senza la garanzia di uno stipendio che per 1.100 famiglie rappresenta spesso l’unica fonte di reddito.

Garantiamo diritti

Abbiamo permesso a chi ne avesse diritto di curarsi, lavorare, ricongiungersi con la propria famiglia. Lo abbiamo fatto senza clamore, ma sempre con la consapevolezza che il nostro impegno fosse essenziale. E lo è davvero, al punto che la Commissione di garanzia ha negato il diritto di sciopero dello scorso 23 giugno perché la nostra assenza avrebbe compromesso diritti fondamentali. Eppure, questo riconoscimento non si traduce in tutele concrete, non si traduce in un futuro certo.

Pratiche evase

Non è solo un sentimento, sono i fatti a confermarlo. Lo stesso ministro dell’Interno ha riconosciuto, nel question time del 16 ottobre 2024, che grazie a noi si è registrato un incremento significativo delle istanze trattate: oltre un milione in sei mesi, con un aumento del 13 per cento nelle domande gestite e del 12 per cento nei permessi di soggiorno rilasciati. Questi dati non sono opinioni, ma la prova tangibile di quanto il nostro lavoro sia fondamentale per il Paese.

Servizio essenziale

E allora come si spiega che un servizio così cruciale continui a essere gestito con proroghe temporanee, gare d’appalto, contenziosi amministrativi? Perché, se siamo essenziali, il nostro lavoro continua ad essere soggiogato a malumori economici tra le parti coinvolte e mai, mai reso stabile e garantito?

Vivere sospesi

La nostra condizione è quella di chi vive sospeso nel tempo, aspettando la proroga di mese in mese, di settimana in settimana. Questa precarietà non è solo un problema economico, è uno stillicidio psicologico. Viviamo nell’incertezza, con la costante paura di perdere il lavoro, di non poter più garantire quei diritti fondamentali alle persone che assistiamo ogni giorno.

La frustrazione di sapere che, nonostante l’impegno profuso e le competenze acquisite (gestiamo in maniera totalmente autonoma gli sportelli unici immigrazione), il nostro contributo può essere spazzato via in un attimo. È un peso che grava su di noi come un macigno.

Un ricorso senza senso

Il ricorso al Tar da parte delle agenzie di somministrazione rischia di interrompere questo fragile equilibrio, ma il problema è a monte. Avremmo dovuto essere internalizzati da tempo.

Il “rischio” nato dal ricorso delle agenzie avrebbe dovuto semplicemente non esistere, non avremmo mai dovuto, nemmeno per un secondo, sentirci meri strumenti di profitto che, a un certo punto, non arricchiscono più, non ingrassano abbastanza le tasche dei privati. È inaccettabile, in un Paese civile, mettere a rischio non solo il nostro lavoro, ma soprattutto la qualità di un servizio pubblico che, senza di noi, semplicemente non può funzionare.

File interminabili

Le conseguenze le vediamo ogni giorno. File interminabili davanti alle questure e prefetture da Nord a Sud, persone costrette ad aspettare mesi per un permesso di soggiorno scaduto, costrette a vivere nell’ombra, senza accesso a diritti fondamentali come la sanità e il lavoro regolare. Quando parliamo di vulnerabilità e sfruttamento, ricordiamoci di Satnam Singh, la cui tragedia avrebbe dovuto scuoterci tutti. La memoria è breve.

Presidio di legalità

I controlli e le verifiche che svolgiamo ogni giorno non sono solo attività burocratiche: rappresentano un vero e proprio presidio di legalità. Sono la garanzia che chi entra nel nostro Paese lo fa nel rispetto delle regole, che chi lavora è tutelato, che chi vive qui ha diritti e doveri riconosciuti. Senza questo presidio, le falle del sistema si aprono e rischiamo di lasciare spazio a illegalità e sfruttamento.

Immigrazione realtà strutturale

Non possiamo più accettare che la gestione dell’immigrazione si riduca a una partita di appalti, proroghe e tagli, come se fosse una questione emergenziale da gestire con soluzioni temporanee. L’immigrazione è una realtà strutturale, parte integrante della nostra società, e deve essere affrontata con politiche strutturali, con investimenti seri nelle persone e nelle competenze.

I decreti flussi, i controlli, gli strumenti normativi esistono, ma senza di noi restano solo parole vuote. Nel decreto legge 145 del 2024 sono stati previsti appena 200 posti in più, divisi tra due dipartimenti, mentre sono oltre mille i lavoratori coinvolti. Cosa risolvono 200 posti? Una goccia nel mare.

Carenze croniche

Da più di sette anni il ministero dell’Interno riconosce ufficialmente la carenza cronica di personale, e questo è un fatto.

Noi non chiediamo privilegi, chiediamo il riconoscimento del nostro valore. Vogliamo continuità occupazionale immediata, l’internalizzazione da parte del ministero dell’Interno delle nostre figure (di ogni singola lavoratrice e lavoratore, dal primo all’ultimo), un concorso riservato che riconosca l’esperienza, le competenze e il sacrificio che abbiamo messo in questi anni.

E di questo non bisogna iniziare a parlare domani, non occorre aspettare il verdetto del giudice del Tar. Bisogna agire ora perché “ora” è già tardi. Che si trovi una soluzione! Che cessi immediatamente questa follia!

Risorse, non merce

Non possiamo più essere considerati risorse solo quando serve, per poi essere dimenticati. Non possiamo permettere che la pubblica amministrazione disperda un patrimonio di know-how costruito con anni di lavoro silenzioso e instancabile.

Chiediamo che la politica si assuma la responsabilità di rispondere non solo a noi, ma a tutto il Paese, che merita un’amministrazione pubblica forte, giusta e capace. Competente e motivata, moderna e appassionata.

Non siamo merce, non siamo un extra, un vezzo. Siamo essenziali. E non smetteremo di lottare finché il nostro lavoro non sarà finalmente riconosciuto come ciò che è: un pilastro silenzioso della giustizia e della dignità di questo Paese.

Ida Venditti è delegata Nidil Cgil somministrati ministero dell’Interno, presso l’ufficio immigrazione prefettura di Pisa