La Carta dei diritti universali delle lavoratrici e dei lavoratori presentata dalla Cgil e, contemporaneamente, il documento per “Un moderno sistema di relazioni industriali” elaborato da Cgil, Cisl e Uil, costituiscono due novità da valutare congiuntamente per una semplice ragione di merito. Leggendo trasversalmente i due documenti si può ben cogliere la comune ispirazione degli assi fondamentali su cui si sviluppano le due proposte, a prescindere dai tecnicismi giuridici.

Il testo della Carta dei diritti | LO SPECIALE
Un moderno sistema di relazioni industriali

Si pensi innanzitutto alla premessa del documento unitario, nella quale le parti indicano l’obiettivo di perseguire la “rappresentanza e la tutela di tutte le forme contrattuali presenti nello stesso luogo di lavoro”, e a tutta la prima parte della Carta, dedicata alla predisposizione di un catalogo di diritti universali per tutte le forme di lavoro svolto in condizione di dipendenza economica. Si tratta in entrambi i casi di un obiettivo di riunificazione del lavoro, sia attraverso la rappresentanza, sia attraverso una rete comune di diritti.

Parallelamente, i due documenti aspirano alla riunificazione della catena produttiva del valore, che invece è “giuridicamente” frammentata a causa delle operazioni di esternalizzazione e di moltiplicazione delle catene di appalti. Nel documento unitario si indica come obiettivo “l’applicazione del contratto prevalente, la clausola sociale, e la responsabilità solidale fra appaltante e appaltatore”, così come nella Carta dei diritti ci sono diverse norme sulla parità di trattamento fra tutti i lavoratori coinvolti nella catena produttiva di valore.

Quanto ai contenuti più strettamente attinenti al modello di relazioni industriali, mi pare che sul versante della rappresentanza sindacale e della struttura contrattuale il parallelismo fra i due documenti sia fin troppo palese: nel documento si richiede l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che la Carta dei diritti attua, a cominciare dal recepimento di tutte le clausole contenute nel Testo unico del 2014. In più, rispetto al Testo unico, sia il documento unitario che la Carta pongono giustamente il problema della misurazione della rappresentatività delle associazioni d’impresa, per poter correttamente attuare l’erga omnes per i contratti nazionali.

Quanto poi al secondo livello di contrattazione, l’uno e l’altro confermano un modello ispirato a un governo nazionale del decentramento contrattuale, con la prospettiva di dare finalmente attuazione a una richiesta risalente al documento unitario del 2008 riguardo alla contrattazione decentrata di sito, filiera, distretto o rete, che viene anche proposta e regolata nella Carta dei diritti. Non solo. Anche sul tema della partecipazione vi sono parallelismi fra i due documenti, poiché la tripartizione proposta nel documento unitario, cioè partecipazione alla governance d’impresa, all’organizzazione del lavoro e partecipazione economica, trova parziale conferma nella Carta dei diritti, quantomeno con riferimento alle prime due.

Insomma, è sicuramente degno di nota il fatto che, nonostante abbia deciso di avviare un’autonoma iniziativa per una proposta di legge (inedita nella sua storia, trattandosi di una proposta di ben 97 articoli, quasi simile a un Codice del lavoro), contemporaneamente la Cgil abbia condiviso un’altra iniziativa contrattuale con Cisl e Uil. Ciò che conta mettere in risalto è la condivisione di una politica sindacale sul lavoro e le relazioni industriali, in un momento storico decisivo per delineare il modello di relazioni industriali italiano del prossimo futuro.

Perché, a ben vedere, siamo all’inizio di una nuova fase o, quantomeno, alla fine di una stagione che nei manuali di relazioni industriali definiremo “stagione della contrattazione separata”. Non a caso, benché da diversi anni Cgil, Cisl e Uil abbiano già stipulato documenti e accordi comuni, con quest’ultimo documento si enfatizza la ritrovata unità sindacale confederale. Un’enfasi giustificata; soprattutto se si evidenzia l’elemento che ci aiuta a intravedere meglio la nuova fase delle relazioni industriali e, quindi, il significato di questa ritrovata unità. L’elemento cui mi riferisco è la questione salariale.

Confindustria, informalmente, e Federmeccanica, con la sua piattaforma di rinnovo del contratto, propongono un modello che vuole attribuire al contratto nazionale la sola funzione di garanzia dei minimi salariali – minimi “alleggeriti” rispetto all’attuale struttura retributiva (o quantomeno sterilizzati nell’evoluzione contrattuale) –, attribuendo esclusivamente alla contrattazione aziendale di produttività la dinamica salariale. Cgil Cil e Uil propongono un sistema che, invece, conservi la funzione di autorità salariale del contratto nazionale, non escludendo né redistribuzione di produttività settoriale, né che – settore per settore – si possano adottare soluzioni che tengano conto delle specificità. Dunque, ciò che caratterizza la proposta sindacale non è tanto la predeterminata distribuzione della produttività, quanto conservare il controllo della dinamica salariale da parte del contratto nazionale.

Appare evidente che si tratta di due logiche opposte e – a dire il vero – difficilmente mediabili. Mentre la posizione sindacale rivendica la funzione macroeconomica del contratto nazionale (e quindi del sindacato) nel determinare la dinamica salariale, la posizione imprenditoriale propende per una funzione microecnomica del sindacato che – come si tende a dire – deve limitarsi a contrattare in azienda il salario di produttività.

Orbene: quale scenario si delinea? Provo a formulare un’ipotesi basata sull’evoluzione storica delle relazioni industriali. Dopo la scala mobile, a partire dagli anni ottanta (dal protocollo Scotti del 1983), le regole contrattate sul salario sono state sempre coerenti con l’interesse politico-economico condiviso da sindacati, imprese e governo. L’interesse condiviso è stato la politica antinflazionistica, ora perseguita con la moderazione salariale, ora con l’abolizione della scala mobile e l’introduzione del sistema legato all’inflazione programmata del 1993.

Oggi, però, tutti gli attori non hanno lo stesso punto di vista politico-economico, perché da una parte imprese e governo (e istituzioni sovranazionali) ritengono che la dinamica salariale nazionale debba essere sostanzialmente sterilizzata (com’è accaduto nei Paesi dove c’è il salario minimo legale) in favore della sola dinamica aziendale di produttività, mentre, dall’altra parte, il sindacato rifiuta questa tesi.

E allora? Le due posizioni sono difficilmente mediabili: o prevale l’una o l’altra. Sicché, è possibile che non ci si accordi su alcuna nuova regola per la contrattazione salariale e così ci si ritrovi nella funzionalità originaria del contratto: cioè una relazione di mercato sul prezzo del lavoro che si definisce solo in base ai rapporti di “forza”. Se questa ipotesi fosse fondata, ci possiamo spiegare perché questo documento segna la ritrovata unità sindacale: l’unità che fa la “forza”.

Vincenzo Bavaro è docente di Diritto del lavoro all’Università di Bari