"Tu chiudi, io riapro", seconda puntata della rubrica di RadioArticolo1 (andata in onda il 29 luglio), stavolta dedicata ai Cantieri navali Megaride, una nuova realtà sorta nel porto di Napoli. Parla il presidente Luigi Izzo. La storia è quella di una cooperativa di lavoratori che nel 1998, sulle ceneri di Tecnaval, Cantieri navali partenopei e Arienti, società che si sono susseguite nella gestione dei cantieri fino al fallimento, ha aperto la strada a tutte le esperienze di autogestione che sarebbero venute dopo. Oggi, a distanza di oltre quindici anni, l'azienda esiste ancora, fa profitti, ha una continuità occupazionale e produttiva ed è sempre in mano agli operai, un caso fuori dall'ordinario in un mondo così specializzato e difficile come le costruzioni navali.

"La nostra cooperativa vanta attualmente 50 dipendenti – afferma Izzo – e un indotto di altrettante unità. Tutto questo è stato possibile grazie alla nostra grande convinzione e caparbietà. Abbiamo capito quanto lavorare senza padroni possa far bene al bilancio di un'azienda, perchè permette di distribuire salari migliori, abbassando nel contempo il costo della manodopera. Ognuno di noi fa quello che deve fare, senza aver bisogno di guardiani o dirigenti che ti controllano. Diamo le indicazioni, poi si va per la propria strada, sapendo che devi dare il meglio per te e per gli altri. Siamo operai da sempre, ma nel contempo oggi siamo anche padroni di noi stessi e dei mezzi di produzione. Abbiamo acquistato un bacino galleggiante, dove ci sono le banchine per ormeggiare le navi, dandogli il nome di Spartacus, dal nome dello schiavo che si affrancò dalle catene e dall'oppressione dei Romani".

"Nell'aprile '98 – prosegue il presidente di Megaride – costituimmo la cooperativa per partecipare all'asta per rilevare i cantieri, successiva al fallimento, anzi a tre fallimenti che si erano succeduti nel corso degli anni. Ma inizialmente il giudice respinse la nostra richiesta e il curatore concluse un contratto di subingresso con Ecolmare, una società anch'essa interessata ad acquisire il cantiere ma solo per svuotarlo, non per riavviare il lavoro. Ci salvò l'Autorità portuale, che obbligò l'acquirente a fare una società con noi cooperativa con un accordo di 18 mesi. La nostra lotta era finalmente conclusa dopo anni di sacrifici, cassa integrazione e mobilità. Avevamo resistito un minuto in più del padrone, ma da quel punto in poi c'era un'attività da rimettere in piedi".

La rinascita dei cantieri navali di Napoli è dovuta alla felice autogestione della cooperativa Megaride, facilitata dalla legislazione italiana che contempla alcune norme favorevoli al workers buy out, vale a dire all'acquisto di ex dipendenti della propria azienda in crisi o fallita: in particolare all'articolo 7 della legge 223 /1991, che nella fattispecie, ha permesso agli operai di ottenere la corresponsione anticipata dell'indennità di mobilità. "Tutti quei soldi – dice Izzo – li abbiamo messi nel capitale iniziale, necessario per alimentare la nuova vita dell'azienda. Senza quella norma non avremmo saputo come fare per raggranellare le risorse necessarie. Oggi possiamo dire di essere una realtà imprenditoriale consolidata: occupiamo un'area di 13.500 mq, di cui 3.000 coperti, 7.000 scoperti e 3.500 di specchio d'acqua, dove vi sono capannoni, uffici e depositi. Riusciamo a competere nelle principali gare d'appalto nazionali e internazionali pubbliche, ma ci assicuriamo grosse commesse anche per conto di clienti privati. Costruiamo traghetti per gli armatori e pescherecci per i pescatori. Tutto ciò che facciamo si deve unicamente alle nostre forze e competenze, perchè non abbiamo nè possiamo avere alcun tipo di aiuto o finanziamento".

Ma come mai gli operai sono riusciti a far funzionare i cantieri laddove molti imprenditori in precedenza avevano fallito? Se l'area è così appetibile, perchè nessuna gestione era riuscita a durare più di dieci anni? "Il problema – risponde Izzo – è che chiunque fosse venuto non avrebbe mai assunto quelle maestranze, perchè essendo assai politicizzate e sindacalizzate – eravamo tutti iscritti a Fiom, Cgil, Partito Comunista e Rifondazione –, avevano paura di quella classe operaia. Forse, alla luce dei fatti, avremmo potuto intervenire anche prima, ma fino agli anni '90 nessuna di noi aveva un'esperienza del genere: non si parlava di cooperative di produzione e lavoro, di investimenti e ristrutturazioni, di fondi regionali e quant'altro per mettere in piedi un'impresa autogestita. Noi eravamo permeati dalla cultura tradizionale del lavoro, sindacale e politica, lontana anni luce dal mondo imprenditoriale. In seguito, con i sindacati abbiamo definitivamente rotto, ed è stato il primo scoglio da superare. Ci avevano prospettato una riapertura dei cantieri con appena 7-8 unità, di fronte a 90 licenziamenti, una cosa inaccettabile per noi. Quindi, abbiamo fatto la scelta di buttarli fuori, e ovviamente ciò ha fatto sì che avessimo tutti contro nel momento in cui ci poteva servire un sostegno politico e sociale. Intendiamoci, l'esperienza sindacale ha contato nella nostra formazione, perchè altrimenti non avremmo avuto tutta quella capacità e forza per fare quel che abbiamo messo in piedi".