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Grazie agli amici di Collettiva per avermi chiesto di parlare. Prima di me sono intervenute tante persone abituate a parlare da un palco, questa è la prima volta che lo faccio, ma ho pensato di prestarmi perché una cosa che vorrei dire c’è.
Lavoro da 25 anni nell’editoria indipendente con l’idea che pubblicare libri sia un gesto politico; lavoro come traduttrice con l’idea che tradurre sia un gesto fortemente politico, un modo per creare ponti. Che il mio lavoro sia profondamente politico è vero, ma non basta. Rientro dal Salone del Libro di Torino, dove gli editori competono per la visibilità e si congratulano per le copie vendute. Ogni anno questa grossa kermesse ci fa credere che quello che facciamo abbia un senso, ma in realtà il lavoro editoriale è sempre più precario, e l’impresa editoriale in questo paese non riesce più ad avere un ruolo di indirizzo culturale, deve soltanto cercare di sopravvivere nel cosiddetto mercato libero, che tale non è.
Pubblicare i libri più belli del mondo non basta, non basta avere gusto nello scegliere i libri, curarne l’uscita, ragionarci sopra, tutto questo lavoro che ho fatto per 25 anni non basta. Le condizioni sono cambiate, e oggi fare libri significa vendere contenuti a un pubblico targettizzato e non più diffondere idee. Le persone che lavorano con i libri, le persone che lavorano con la cultura devono fare di più.
Dobbiamo fare di più, noi che viviamo di creatività e di cultura, perché abbiamo dato per scontato che la democrazia si autoalimentasse, invece la democrazia si alimenta solo se esistono persone con la mente libera, in grado di comprendere la realtà, in grado di criticarla, in grado di cambiarla. Per fare questo le persone devono ricominciare a saper dialogare fra di loro, cosa che non avviene più.
C’è bisogno da parte della classe creativa e intellettuale di uscire dalla propria comfort zone, uscire dalla bolla: parlare con chi non la pensa come noi e far cambiare idea alle persone. Non sono i libri – o non sono solo i libri – il modo per farlo, abbiamo bisogno di reimparare cos’è il dialogo, di riconquistare spazi di dialogo. Non basta venire qui ad applaudire chi parla dal palco, non basta sentirsi nel giusto, non basta postare le foto sui social delle cose che facciamo perché ci sembrano giuste.
Bisogna cambiare radicalmente il modo in cui si affrontano i problemi, perché c’è bisogno di convincere le persone ad andare a votare. Convincere ad andare a votare chi non ci vuole andare è un’impresa intellettuale difficilissima, ce la dobbiamo caricare sulle spalle tutti. Come? Uscendo, andando incontro alle persone che non conosciamo, che non la pensano come noi, con cui non siamo nella stessa bolla. È difficile, ci provo tutti i giorni, provateci anche voi, grazie.
Martina Testa, editor e traduttrice