Ci risiamo. Un’altra volta. Lo sentite anche voi quel ronzio molesto che risuona da settimane nei salotti televisivi, nei talk-show stanchi, nei bar di provincia come nei viali indifferenti delle metropoli? È la solita litania paralizzante del “tanto non cambia nulla”, del “sono tutti uguali”, del “ma chi me lo fa fare”. Una ninna nanna dell’apatia, un canto di sirena che vorrebbe cullarci nel torpore del disimpegno, addomesticarci con la carezza viscida dell’indifferenza. Ma stavolta no. Perché l’8 e 9 giugno non si vota per abitudine o per statistica. Stavolta in gioco non c’è solo un risultato: c’è la dignità stessa dell’atto democratico.

Non votare è un lusso da anestetizzati, un privilegio tossico da chi si è convinto che la storia sia finita, che il futuro sia un algoritmo in mano ad altri. Ma la storia, amici e compagni, non è finita affatto. È qui, viva e incazzata, e ci guarda dritti negli occhi. Ci interroga, pretende il nostro coraggio. Ci ricorda che la democrazia è fragile solo se la lasciamo sola.

Il quorum non è un traguardo da sfiorare con indifferenza, ma è un ostacolo da disintegrare. Non per un simbolo, non per un partito, ma per rivendicare che noi, cittadini e cittadine, non ci lasciamo ridurre a spettatori. È una sfida contro chi gioca a fare l’uomo o la donna forte, contro chi tratta la partecipazione come una formalità di calendario, contro chi sogna un popolo muto e ubbidiente. Andare a votare è dire: ci siamo, sappiamo decidere e pretendiamo rispetto.

Non votare è lasciare campo libero ai seminatori d’odio, ai teorici della rassegnazione, agli amici delle disuguaglianze. È passare il testimone a chi non ci rappresenta, a chi sogna un Paese ordinato perché silenziato. È una resa senza condizioni. E noi non siamo disposti ad arrenderci. Non stavolta.

Votare, oggi, è invece un atto sovversivo. È sabotaggio della rassegnazione, è disobbedienza al cinismo, è uno sputo in faccia all’indifferenza che ci vuole mansueti e prevedibili. È un urlo dentro l’urna. È memoria viva di chi per quel diritto ha lottato, ha sofferto, è morto. Non con un post, ma con la galera e il sangue. E noi, da vivi, cosa facciamo?

Portiamo le nostre rabbie, le nostre paure, le nostre speranze. Portiamo le domande che non hanno ancora risposta. Ma soprattutto portiamo noi stessi. A testa alta. Ogni scheda è un mattone nel muro contro il ritorno dei fantasmi peggiori. Ogni voto è un argine contro l’erosione lenta ma sistematica della partecipazione. Ogni croce è un atto di consapevolezza: se non decidiamo noi, lo faranno altri. E poi sarà troppo tardi per lamentarsi.

Quindi domenica e lunedì niente scuse. Mettetelo in agenda come si segna un compleanno o un anniversario importante. Non come un dovere burocratico, ma come un gesto d’amore per il Paese che vogliamo e un atto di ribellione contro quello che temiamo. Andiamo a votare. Gettiamo il quorum oltre l’ostacolo. Facciamolo saltare, esplodere, diventare memoria di una disaffezione che non ci appartiene più. È l’ora di alzarci in piedi. E scegliere da che parte stare.