Questa pandemia, devastante in ogni campo del vivere collettivo (sociale, economico, produttivo e culturale), ha evidenziato all’attenzione mondiale la necessità di intraprendere urgentemente azioni che correggano i modi produttivi, che devono essere sostenibili e basati sui dettami dell’economia circolare. L’Europa ha recepito l’indicazione e tradotto questa in ingenti finanziamenti messi a disposizione degli Stati membri nel New Green Deal. Per accedervi, governi e imprese devono metabolizzare contenuti nuovi per orientare la nuova riconversione industriale.

Non è la prima volta che ciò accade in Italia. Basti pensare alle novità virtuose che è stato in grado di introdurre, proprio in tema di economia circolare, il Decreto Legislativo Ronchi (n. 22 del 5 febbraio 1997), con il quale il nostro Paese recepiva le normative europee sulla gestione integrata dei rifiuti (che, è sempre utile rammentarlo, pone al primo posto la riduzione di quantità e pericolosità dei rifiuti; in altre parole, il miglior rifiuto è quello non prodotto, una affermazione che promuove riutilizzo e riparazione, quest’ultima attività foriera di impulso significativo soprattutto per le piccole imprese del settore). Nel periodo immediatamente successivo e fino al 2011, nel sistema Italia il comparto del riciclo ha prodotto benefici per 11,1 miliardi di euro (fonte: Conai), valore superiore a quello di settori più radicati e celebrati (la moda, per esempio).

Coniugare economia circolare e ambiente produce benefici, infatti, per entrambi i comparti. Per esempio, la sostituzione di un 10% della miscela di sabbia, soda e alcuni ossidi con rottame di vetro, permette di risparmiare il 2,5% dell'energia necessaria per la produzione di nuovi prodotti; il processo di riciclaggio dell’alluminio richiede fino al 95% in meno di energia e comporta un significativo risparmio di emissioni di CO2; il riciclo di una tonnellata di carta e di cartone determina un risparmio di circa 210 kg di CO2 equivalente. In Italia, virtuosamente, si recupera quasi il 100% degli oli minerali usati, che vengono avviati a rigenerazione. In termini ambientali, nel 2019, questi interventi hanno prodotto un risparmio di 73.000 t di CO2 equivalente, 42.000.000 di litri di risorse idriche, 1.121 t di SO2equivalente.

E dunque, coerentemente, la nuova legislazione e politica europea e italiana devono urgentemente e rigorosamente basarsi su nuova impostazione: natura e ambiente, produzione competitiva, economia circolare e occupazione avanzano meglio se - insieme - assolvono a tre principi: energia pulita, empowerment digitale, massiccio utilizzo della rete. Anzi, ce n’è un quarto: formazione. Proviamo a sintetizzarne i contenuti.

Uno degli asset del New Green Deal europeo è certamente la transizione energetica, che implica almeno due orientamenti: il progressivo abbandono delle fonti fossili a favore di quelle rinnovabili (e la scelta di vettori energetici puliti, quali l’idrogeno verde e l’elettricità da rinnovabili) e il perseguimento del massimo efficientamento energetico (la migliore energia è quella che non si spende). E ciò vale soprattutto per le imprese che occupano il medesimo territorio, perché è proprio in questo caso che si ottengono le migliori efficienze, grazie alla massa critica che ottimizza costi e rendimenti.

Le opportunità offerte dalle nuove connessioni in fibra vanno assolutamente potenziate, applicando la digitalizzazione nei processi produttivi, amministrativi e gestionali, in funzione di monitoraggio in continuo e trasparenza costante nella realizzazione del prodotto finale. Come ricordava Pasquale Merella sul Sole 24Ore del 29 ottobre 2020, “le scelte effettuate dalle imprese nel “pre-covid” ne hanno determinato il loro posizionamento durante il periodo di pandemia. Chi ha investito in innovazione e digitalizzazione, in particolare in IoT e 5G, si è ritrovato in una posizione competitiva”.

Dovrebbe essere oramai acclarato che un'industria che rimane impermeabile all’esterno, perde competitività; al contrario, fare rete consente di accedere a connessioni che si riveleranno utili a ogni fase della vita di un impianto industriale: dallo scambio di esperienze alla disponibilità di materiali, magari in un impianto della strada accanto; dalla gestione dei rifiuti ai cambiamenti di mercato. Ciò vale in ambito nazionale ma, soprattutto, sovranazionale. Aprirsi all’esterno e all’estero significa godere di un aggiornamento costante per ogni aspetto gestionale di una industria: in tale direzione, i distretti territoriali dovrebbero alimentare proposte integrate che si muovono anche in settori differenti, perché ciascun impianto, in questo ambito, si trova ad affrontare le medesime problematiche, tutte tese ad applicare i principi dell’economia circolare.

Muoversi in tali direzioni necessita di una costante attività formativa qualificata, che coinvolga trasversalmente ogni livello di responsabilità, ciascuno per le proprie competenze, ma tutti tesi a realizzare una più adeguata cultura d’impresa, che è in grado di far crescere le opportunità occupazionali.

D’altronde, già oggi, secondo il Rapporto sull’economia circolare 2020 (curato dal Circular Economy Network, in collaborazione con Enea), nella classifica degli occupati green l’Italia si posiziona al secondo posto dietro la Germania, con 517mila occupati. Il dato negativo è che nel 2008 erano 550.00: “l’Italia negli ultimi anni sta attraversando una fase di stallo, mentre gli altri partner europei crescono più velocemente”.

Una tendenza che va urgentemente invertita, affinché il nostro Paese riprenda il suo ruolo pilota e costruisca una crescita solida, sana, compatibile con natura e ambiente eppure economicamente forte.

Enzo Naso è docente di Ingegneria all'Università La Sapienza di Roma e direttore del Centro interuniversitario di ricerca per lo sviluppo sostenibile (Cirps)

Massimo Guerra, Cirps, coordinatore sezione Rifiuti, Acque e Ambiente

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