Lo sviluppo economico di un paese, così come la sua capacità – oggi più che mai rilevante -  di uscire dalle situazioni di crisi, sono strettamente legati agli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S), che a partire dalla ricerca fondamentale rappresentano l’infrastruttura su cui costruire una produzione industriale innovativa e competitiva. In questi anni, in Italia per la ricerca si è speso sempre meno, circa lo 1.4% del Pil contro una media Ocse del 2.4, e larga parte dei fondi sono andati a sostenere la ricerca applicata. 

Ad oggi, la spesa pubblica in R&S è in progressivo calo dal 2013, e la costante situazione di sotto finanziamento degli enti pubblici di ricerca (Epr) ha influenzato drammaticamente le condizioni di lavoro e le prospettive dei pochi - rispetto alla media degli altri paesi avanzati – che lavorano nel settore. Se, da un lato, i recenti provvedimenti di stabilizzazione dei ricercatori hanno parzialmente attenuato il problema del loro numero, il personale amministrativo è oramai ridotto all’essenziale, e quello tecnico può semplicemente considerarsi una rarità: i tempi della burocrazia, già largamente gonfiati da una serie di norme e regole molto lontane dalla ragionevolezza, si allungano ulteriormente, mentre il lavoro di laboratorio e quello sul campo diventano più complicati, costringendo la maggior parte dei dipendenti a fare in sede tutto quello che è necessario fare lì, durante l’orario di lavoro,  e a casa il resto (non pagato, ovviamente).

Così come è, Il sistema della ricerca pubblica italiana è, di fatto, letteralmente co-finanziato dagli stessi ricercatori. Le risorse di base assegnate a ciascuno di essi, infatti, sono praticamente limitate alle infrastrutture, mentre larga parte delle altre spese, da quelle di pubblicazione dei propri risultati al più banale acquisto di un PC o di un particolare software, finiscono per gravare sui fondi dei progetti che i ricercatori stessi trovano in modo spesso del tutto autonomo dall’ente di appartenenza. In molti Epr, poi, parte di queste risorse viene prelevata direttamente alla fonte sotto forma di contributo alle spese generali, e utilizzata per fare fronte all’attività ordinaria dell’ente, cioè a quella che ci si aspetterebbe essere interamente coperta dagli scarsissimi fondi ordinari. In alcuni contesti, questa percentuale ha raggiunto l’assurda cifra del 60%, con immaginabili ed ovvie conseguenze negative sulle attività di ricerca e sviluppo vere e proprie.

Sia pure con alcune rilevanti eccezioni, legate soprattutto a grandi progetti e partecipazioni internazionali del nostro paese (è il caso, ad esempio, del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide), questo particolare, precario equilibrio ha finito, anno dopo anno, per concentrare un largo numero di linee di ricerca sugli aspetti più applicativi, per i quali vengono messi a disposizione la maggior parte dei fondi, trascurando quelli più legati alla ricerca fondamentale e di base (curiosity driven), che è però un elemento essenziale dell’innovazione vera e propria, quella che produce nuove scoperte ed invenzioni: per dirla con un adagio oramai diffuso negli ambienti di ricerca, se si fosse fatta soltanto ricerca applicata, al posto dell’energia elettrica avremmo soltanto delle candele migliori.

E le più giovani generazioni? Probabilmente, almeno alcuni di questi aspetti hanno raggiunto la società civile in generale e le nuove leve in particolare, che infatti quasi non ci provano nemmeno più: il numero dei dottorati di ricerca italiani è oramai tra i più bassi d’Europa e in progressiva diminuzione (-40% tra il 2008 e il 2019), mentre circa un quinto dei pochi che ottengono il titolo preferisce, piuttosto che infilarsi nel tortuoso campo minato della ricerca nostrana, trasferirsi direttamente all’estero. D’altronde, in molti altri paesi europei e non, anche geograficamente molto vicini al nostro, sanno di trovare maggiori prospettive di carriera, un sistema di gestione del lavoro non asfissiato da burocrazia ridicola e in larga parte dannosa nonché, in particolare, uno stipendio nettamente migliore. Considerazioni che valgono, d’altronde, anche per coloro che, abbandonate le aspirazioni di ricerca, sono passati al settore aziendale, dove si trovano tranquillamente stipendi del 20% superiori. 

Nonostante il disastroso contesto, sembra però che, almeno dal punto di vista delle pubblicazioni, il sistema della ricerca italiana regga e il suo contributo scientifico possa considerarsi ancora forte: nel 2016 l’Italia ha prodotto quasi il 4% delle pubblicazioni comprese nel 10% di quelle più citate al mondo (subito dietro Stati Uniti, Cina, Regno Unito e Germania), e non certo per degli investimenti in R&S. Questo aspetto, che è senz’altro un punto di forza di non trascurabile impatto, è più probabilmente attribuibile al particolare inquadramento dei ricercatori in Italia e all’organizzazione praticamente orizzontale di molti Epr, che lasciano – se non altro per ragioni legate al rispetto dell’Art. 33 della Carta Costituzionale – ampissima autonomia ai ricercatori nel determinare, organizzare e perseguire le proprie linee di ricerca.

Il recente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, nel dedicare una consistente parte di risorse alle infrastrutture e alle attività di ricerca sia di base che applicate, incluso il sostegno ai processi di innovazione e trasferimento tecnologico alle imprese, sembra avere le potenzialità per segnare almeno una prima inversione di tendenza, ma l’ammontare di tutti gli investimenti chiamati “Dalla Ricerca all’Impresa” è di soli 1,6 miliardi l’anno, pari a circa lo 0.1% del Pil: davvero troppo poco per sperare che, da solo, basti a produrre risultati significativi e duraturi.

Gianpietro Casasanta  è ricercatore in micrometereologia Isac-Cnr
Angelo Viola è ricercatore in scienze polari Isac-Cnr