Sono note  le criticità del sistema degli Enti pubblici di ricerca (Epr) del nostro Paese, a partire proprio dal fatto che parlare di sistema in questo caso appare improprio, vista la mancanza di una  governance unitaria, come testimoniato anche dal fatto che gli Epr sono sottoposti alla vigilanza di ben sei diversi ministeri  e che pertanto a partire dagli aspetti relativi al finanziamento risultano non collegati tra loro, anche se,  a guardare bene, in tema di risorse sono comunque essenzialmente  legati da un comune destino che li ha visti in quest’ultimo decennio subire un  progressivo calo dei finanziamenti. A riguardo si può notare come il valore del fondo di finanziamento ordinario degli Epr vigilati dal Mur (14 Enti su un totale di 20) nel 2020 risulta inferiore anche in termini assoluti a quello di dieci anni fa (1754 Mio Eur nel 2020, contro i 1794 del 2011).

Meno risorse, meno personale
Parallelamente al taglio delle risorse finanziarie c’è stata anche una diminuzione del personale impiegato negli Epr a causa dei blocchi del turn-over e solo negli ultimi anni si è avuta una inversione di tendenza grazie ai piani straordinari di reclutamento e alla stabilizzazione dei lavoratori precari avviata in base al Dlgs 75 del 2017. Ma se l’andamento complessivo rispetto all’ultimo decennio nel nostro Paese evidenzia un saldo negativo rispetto ai parametri principali, ciò che è assai più preoccupante è l’arretratezza del nostro Paese nel contesto internazionale, come testimoniato dalle spesa complessiva in R&S rispetto al Pil, lontanissima rispetto ai Paesi con performance migliori, ma distante anche dalla media Ocse, che risulta pari al 2,4% contro l’1,4% del Pil dell’Italia e ciò vale sia per il settore pubblico che quello privato. Analogamente ampio risulta il gap rispetto al numero dei ricercatori: abbiamo circa la metà dei ricercatori della Francia, un terzo di quelli della Germania e registriamo un dato allarmante anche rispetto alla media dei ricercatori impiegati nei Paesi Ocse, che risultano essere 9 ogni mille lavoratori mentre nel nostro Paese sono solo 5,5. 

Modelli di investimento
I Paesi che investono maggiori risorse pubbliche in ricerca e sviluppo lo fanno utilizzando diversi modelli, ma prevedendo sempre il finanziamento di una infrastruttura solida ed estesa di ricerca pubblica, di base e applicata. Porsi l’obiettivo di innalzare il potenziale di crescita del sistema economico del Paese rafforzando la propensione all’innovazione del nostro sistema produttivo non può pertanto prescindere da un processo di riforma, accompagnato da ingenti risorse finanziare. Proprio in quest’ottica, il Pnrr rappresenta un’occasione irripetibile anche se, a ben guardare, le preoccupazioni rispetto a come si è definito il Piano non mancano, stante il frazionamento e le modalità di ripartizione di fondi a disposizione  che sembrano privilegiare prevalentemente investimenti in ricerca applicata e a presunto rapido trasferimento tecnologico con un ruolo forte del privato. Che vi sia la necessità di maggiore interazione e sinergia tra pubblico e privato è fuori discussione, ma in relazione al contesto critico della ricerca nel nostro Paese appena descritto, appare evidente la necessità di investire anche e soprattutto nell’infrastruttura pubblica di ricerca e nella ricerca di base, per rafforzare e  far crescere quel substrato di eccellenza diffusa in ogni settore scientifico che caratterizza il Paese.

Le misure per i giovani
Anche le misure di incentivazione dei giovani ricercatori previste nel Pnrr in assenza di un rilevante piano di assunzione di nuovi ricercatori e considerata la elevata precarizzazione e la bassa retribuzione del settore, rischiano di non riuscire a fermare il costante flusso verso l’estero degli studiosi italiani. Su questo dovrebbe convergere la quota maggioritaria degli investimenti se volgiamo permettere al nostro ambiente scientifico, che resta di primo piano, di contribuire alla crescita del Paese. A riguardo dovrebbero far molto riflettere i risultati dei Consolidator Grants dell’Erc (European Research Council), in cui i ricercatori italiani risultano essere primi per numero di bandi vinti ma solamente ottavi quando si considerano esclusivamente coloro i quali svilupperanno il loro progetto di ricerca in una istituzione di ricerca italiana.
Questo dato non può certo stupire rispetto ad una realtà della ricerca nel nostro Paese così sottodimensionata e facilmente intuibili sono le conseguenze negative anche sul piano delle capacità tecniche, organizzative e di supporto amministrativo che l’infrastruttura pubblica di ricerca offre ai nostri ricercatori. Un’analisi della performance dell’Italia nei progetti di ricerca europei, che ogni anno garantiscono un decimo del finanziamento della ricerca italiana, evidenzia come l’Italia contribuisce di più di quanto riesca a portare a casa, visto che finanzia i progetti per il 12%, mentre ne rientra appena l’8%.

Una fuga motivata
In questo contesto si inserisce, e si comprende, quella che viene comunemente definita la “fuga di cervelli” all’estero, la decisione di lasciare l'Italia, che nell’ultimo decennio ha riguardato circa 14.000 ricercatori italiani: più che una fuga può essere definita una scelta consapevole dettata dal bisogno di essere valorizzati sia dal punto di vista della carriera, sia sotto il profilo economico. Nel nostro Paese, infatti, sarebbero solitamente destinati ad anni di lavoro precario, con una scarsa possibilità di stabilizzazione e di ascesa professionale, oltre una bassa remunerazione. Quindi insieme agli investimenti nell’infrastruttura della ricerca, è fondamentale anche investire sul personale, a partire dalla necessità che vengano applicati i contenuti della Carta Europea della Ricerca, il codice di condotta per l’assunzione dei Ricercatori (2005/251/CE) e le indicazioni contenute nel documento European Framework For Research Careers. Se consideriamo la situazione del personale degli Epr, a partire dai ricercatori e tecnologi, risulta assolutamente improrogabile tornare a garantire un’opportunità di sviluppo professionale, in coerenza con l’evoluzione del già citato quadro normativo europeo di riferimento, che indica la necessità di delineare percorsi di carriera certi, maggiore velocità nell’inserimento e nel reclutamento, superamento delle condizioni di precariato, agibilità ed insieme qualità della valutazione che accompagna sempre la crescita di competenze, conoscenze e livelli di responsabilità.

Foto di gruppo
La fotografia del personale fatta dall’Aran lo scorso anno, ci dice che circa il 70% del personale ricercatore e tecnologo degli Epr ( l’80% se si considerasse il solo Cnr, il più grande ente di ricerca del Paese) si trova ancora collocato nel livello III, il primo dei tre livelli, quello di ingresso iniziale o junior, quando questo dovrebbe rappresentare solo una fase di transito (di non più di 4 anni) del percorso di sviluppo professionale, verso  il passaggio al livello II successivo, comunemente indicato “senior” o di “comprovata esperienza”. Di conseguenza anche il livello apicale I del profilo del ricercatore e tecnologo degli Epr è oggi ricoperto da una troppo esigua schiera di personale, a testimoniare la propensione del sistema alla scarsa valorizzare professionale del proprio personale. Questa situazione di sostanziale blocco delle carriere è per altro condivisa anche dal restante personale tecnico e amministrativo degli Epr ed è dovuta in parte dal  blocco dei contratti del pubblico impiego dal 2009 al 2016, in parte dal taglio subito dai fondi del salario accessorio e soprattutto dovuta al fatto che  gli Enti da molti anni non hanno più investito risorse adeguate per il riconoscimento e la valorizzazione professionale del personale in considerazione della situazione di difficoltà economica in cui versano aggravata dal fatto che nelle leggi di bilancio che dal 2016 in poi hanno finanziato i contratti del pubblico impego, nemmeno un euro è stato destinato a tal fine per gli Epr. In questo quadro estremamente difficile, dove neanche nell’ultima legge di  bilancio sono  state date risposte alle richieste avanzate personale degli Epr,  è intervenuto il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”, sottoscritto il 10 marzo 2021 dal Governo con le confederazioni di Cgil, Cisl, Uil, che prevede impegni sulle risorse per le modifiche sull’ordinamento professionale e per interventi normativi sulla contrattazione integrativa. Ciò rappresenta una grande opportunità, a condizione però che venga previsto uno specifico finanziamento per gli Epr che consenta loro di attuare effettivamente le procedure per il riconoscimento e la valorizzazione della professionalità del personale, stante il fatto che allo stato attuale non sono pochi gli Enti che hanno già impegnato quasi tutto il loro finanziamento ordinario per le spese del personale (il Cnr al 94% ) e questo, dati alla mano, certamente non per il fatto che il personale sia troppo o troppo ben pagato… 

Pino Di Lullo è membro della segreteria Fp Cgil con delega all'Università e Ricerca