Un famoso spot, utilizzato per oltre quarant’anni da L’Oréal, recitava Because you’re worth it (“Perché tu vali”). Bellissime modelle pubblicizzavano prodotti cosmetici, ma il messaggio suggeriva che il valore non risiedeva tanto nei prodotti, quanto nella persona che li usava e che li meritava: una donna, ancor prima che una modella. Erano gli anni Settanta e quello spot fu un cambio di prospettiva di enorme successo.

Oggi si potrebbe dire: “Noi valiamo” (anche) perché i nostri dati valgono. Per due ragioni su tutte: a) perché i dati permettono di profilare la nostra domanda individuale di consumo di servizi e prodotti, rendendo assai efficaci forme di pubblicità e di commercializzazione personalizzata, aumentando la probabilità di vendita; b) perché i dati consentono agli algoritmi di migliorare sé stessi, man mano che nuovi dati sono analizzati, e di stimare, così, la domanda aggregata o media di consumo di servizi e prodotti, indicando in tempi assai rapidi le evoluzioni delle preferenze, i bisogni del mercato, le opportunità di investimento e di innovazione e così via. Il che permette di sviluppare al massimo il rendimento degli investimenti pubblicitari attratti dalle grandi piattaforme online.

Il valore dei dati aumenta con il loro volume e la loro varietà. E per aumentare il valore dei dati, il mercato e l’industria si sono evoluti con modelli di business nuovi, in modo tale da stimolare in ciascuno di noi la massima intensità̀ di rivelazione di dati. Come? Con l’avvento del paradigma del free, che nella lingua inglese significa “libero”, ma anche “gratuito”. Una straordinaria combinazione semantica che tuttavia alimenta, e non poco, la confusione sul concetto di “libertà di scelta”.

Nell’ecosistema digitale possiamo accedere a moltissimi servizi gratuitamente e dedicare molto del nostro tempo di attenzione ad essi. Tutto ciò che dobbiamo fare è semplicemente dare nome, cognome, indirizzo mail, numero di telefono, una password con la massima garanzia – rafforzata dalla normativa a tutela della privacy – circa l’utilizzo di quei dati che rilasciamo. E il gioco è fatto. Ma quello che ci sembra un banale strumento per ottenere un libero accesso è in realtà̀ il vero bene, il cui scambio regge la transazione commerciale sottostante.

Lo scambio implicito, per tutta questa gratuità di servizi, è con la nostra attenzione, con il rilascio di dati che permetteranno poi promozioni e pubblicità̀ personalizzate per i nostri bisogni. A questo scambio implicito corrisponde un mercato implicito, quello dei dati, del quale sappiamo ancora troppo poco. Come spesso si ripete in questi casi, il prodotto siamo noi: l’informazione rivelata sulle scelte che abbiamo compiuto, sulla nostra disponibilità̀ a pagare, sulla frequenza ad acquistare, sul tempo dedicato alla fruizione del prodotto o alla sua ricerca e così via. La nostra attenzione da un lato produce dati che servono anche a profilarci, dall’altro è la destinataria di informazioni (pubblicitarie e non solo) profilate per noi. Dunque, il free di molti servizi online non è “libero”, perché è condizionato ad uno scambio, e non è “gratuito” perché è pagato con i nostri dati. 

Ma come viene creato il valore dal dato? Volume, varietà̀, velocità dei dati ne generano il valore. Il volume dei dati rappresenta sicuramente la caratteristica che più facilmente si può accostare ai big data. C’è poi la varietà dei dati che si riferisce all’eterogeneità̀ delle fonti sorgenti dei dati, dei formati con cui vengono acquisite le informazioni, della rappresentazione e dell’analisi (anche semantica) dei dati immagazzinati.

Infine, la velocità dei dati risulta connessa, in primo luogo, alle tempistiche con cui le banche dati vengono alimentate, in particolare all’alta frequenza con cui i dati circolano da un punto di origine a uno di raccolta. La velocità non riguarda esclusivamente il flusso di dati, ma anche la necessità di processare i dati in maniera rapida, per prendere decisioni ad un ritmo sempre più veloce, spesso in tempo reale (cd. real-time action e real-time processing).  

C’è chi si è divertito a contare oltre 70 v dei dati, includendo ad esempio la veridicità (la fiducia che in essi si può riporre), la valenza (cresce nel tempo e riguarda le connessioni fra dati), la visualizzazione dei dati (il modo in cui riusciamo a rappresentarli). La v più importante, tuttavia, è quella che deriva da tutte le altre ed è legata alla capacità di estrarre valore dai big data. Ovviamente l’aspetto preponderante risiede nell’attività̀ di raccolta pubblicitaria online (digital advertising) per la commercializzazione di prodotti e servizi indirizzata verso una domanda già profilata. Accanto al valore privato per le imprese (e per i consumatori che risparmiano costi transattivi), c’è anche il valore pubblico dei dati che possono essere impiegati per il disegno di politiche volte ad accrescere il benessere complessivo della società̀.

Affinché́ i dati acquisiscano davvero un valore economico, essi devono essere funzionali allo svolgimento di analisi economico-statistiche. Descrivere i dati come un bene economico può̀ far sgranare gli occhi a quanti vedono, giustamente, nel dato personale una caratteristica intimamente connessa con i diritti della persona. L’analisi economica del dato, tuttavia, è di ordine pragmatico e prescinde, ovviamente, da ogni considerazione di ordine etico e giuridico circa lo sfruttamento economico di informazioni di natura personale e il significato della loro tutela nella sfera dei diritti fondamentali dell’individuo.

Accanto alle sfide etiche, c’è il tema delle regole. Per molti anni abbiamo pensato che la rete fosse lo spazio esclusivo delle nostre libertà nell’infosfera. E che ogni tentativo di regolarne il funzionamento mettesse a rischio quelle libertà. Il problema, è che, nel frattempo, qualcosa è cambiato. Il mondo dei blog, dei link ai testi, delle verifiche immediate si è ristretto. La complessità e l’eccesso d’informazione hanno generato degli intermediari nuovi ai quali deleghiamo la nostra attività di ricerca di servizi, prodotti e contenuti informativi. Chi cerca trova, ma chi trova non cerca più.

L’efficienza dell’algoritmo delle piattaforme online ha definito un nuovo spazio di regole. Tutto questo ha trasformato l’ecosistema digitale, favorendo grandi concentrazioni e grandi intermediari che, spinti dall’efficienza, continuano a espandere i versanti coperti dalla loro intermediazione e che concorrono tra di loro per la nostra attenzione. La relazione tra dati, algoritmi, profilazione, modelli predittivi e sfruttamento economico dell’informazione è ormai evidente. Ed è una relazione che si basa su un sistema di regole di selezione per la realizzazione di un perfetto incontro (matching) tra domanda e offerta, nei vari versanti dei mercati intermediati dalle piattaforme online. I benefici sono evidenti, ma ci sono anche i rischi, sotto il profilo della concorrenza, della libertà di scelta, del pluralismo, della protezione del dato, ecc.

Una grande novità nel quadro normativo europeo sui servizi digitali (fermo alla direttiva 2000/31/CE sull'e-commerce) è stata la recente approvazione da parte della Commissione europea del Digital Services Act, Digital Market Act e del Data Governance Act, cui seguiranno le proposte del Data Health Act e del Data Act. Emerge con tutta evidenza il cambiamento di tipologia adottato, ovvero regolamenti anziché direttive e la volontà di regolare l’accesso al dato, oltre la privacy, per favorire un mercato ben funzionante dei dati, rispettoso tuttavia dei diritti fondamentali.

Muta, dunque, la decisione relativa al quesito se regolare o meno, giacché si preferisce intervenire sulle piattaforme online, in relazione per esempio ai contenuti illegali e dannosi, obbligando le piattaforme ad essere più trasparenti riguardo la moderazione dei contenuti per impedire che la disinformazione diventi virale e per scongiurare il pericolo dell’immissione sui mercati di prodotti pericolosi. Muta anche l’incisività sulle diverse normative nazionali, dal momento che nelle proposte si intendono promuovere l’innovazione, la crescita e la competitività all’interno del mercato, tutelando, allo stesso tempo, i consumatori e i loro diritti fondamentali in maniera più efficace.

Non si tratta quindi di scegliere tra un mondo di regole e un mondo senza regole. La domanda che dobbiamo avanzare è se queste regole debbano essere lasciate al mercato e alla sua capacità di selezione, essendo però ben consapevoli che, quando diciamo “mercato”, non intendiamo la mano invisibile digitale che coordina l’informazione dispersa e diffusa grazie al laissez faire liberale. Lasciare al mercato il governo dell’economia dei dati significa affidarsi alle regole private dell’intermediazione centralizzata delle grandi piattaforme online che cattura, e gestisce in proprio, l’informazione rivelata dai diversi soggetti intermediati a vario titolo.

Antonio Nicita, Professore ordinario di Politica economica presso l'Università Lumsa (Roma-Palermo)