Il dominio dell’uomo sta nella conoscenza, diceva sir Francis Bacon, e il motto latino concordemente tradotto come “sapere è potere” ha, nei secoli, informato di sé l’anelito alla conoscenza, all'indagine dei fenomeni, alla ricerca dei nessi causali. Questo era l’esordio – 6 anni fa – del primo convegno fatto in Cgil sui Big data. All’epoca se ne parlava ancora pochissimo, mentre oggi possiamo sicuramente affermare che a tutti è sicuramente capitato almeno una volta di sentirli nominare. Espressione coniata dall’astronomia e dalla genomica, i big data costituiscono un enorme patrimonio di dati e un insieme di operazioni di trattamento degli stessi che rappresentano oggi un valore aggiunto per imprese pubbliche e private; ma nel contempo possono creare grandi concentrazioni di potere, seri rischi per la tutela dei dati trattati e, in particolare, per la loro riservatezza, distonie sociali e pericoli per la democrazia. L’interrelazione di dati, spesso di natura molto diversa e non strutturati (immagini, informazioni immesse nei social network, localizzazioni, testi, ecc.) necessita di tecniche di estrazione e analisi che ne consentano l’utilizzo al fine non solo statistico, ma anche di previsione di comportamenti: i cosiddetti modelli predittivi.

La predittività dei comportamenti è già di per sé un elemento di potente valore economico e comprende, come valore aggiunto, la possibilità di orientamento degli stessi. L’essenza dei big data è proprio nell’informazione e i detentori dei dati ne controllano l’accesso, li utilizzano o li forniscono ad altri. Ad oggi i mercati dei dati e, in particolar modo, le piattaforme sulle quali si scambiano dati sono diventate realtà sempre più popolari. Come ci ricorda Soshana Zuboff nel suo Il capitalismo della sorveglianza, la storia del nuovo corso del capitalismo stesso nasce quando si scopre il “surplus comportamentale, ossia quando si capì che i “dati di scarto che intasavano i server di Google potevano essere associati alle sue potenti capacità di analisi per prevedere il comportamento degli utenti”. Il sempre maggiore accumulo di dati ha reso questi modelli predittivi sempre più performanti e, piano piano, si è imposto un modello di sostanziale datificazione della realtà.

L’accumulo e lo scambio di dati producono ovviamente un vantaggio anche per le imprese che producono loro stesse dati, anche a latere di altri processi industriali, e li utilizzano in house o li commercializzano. Di fatto possiamo dire che tutto ciò che attiene al comportamento umano è divenuto dato, informazione utilizzabile. L’informazione, quella proveniente dal singolo, aggregata e “lavorata” grazie ad algoritmi complessi e selettivi, è oggi una merce e dunque, utilizzando una citazione efficace, potremmo dire che “tutti i dati sono dati di credito”. Il tema di natura economica ha un chiaro risvolto sociale se solo si considera che ci troviamo di fronte ad una iper-visibilità del singolo non bilanciata dall’esatta cognizione dell’utilizzo delle informazioni personali, né dal detentore finale delle stesse.

Oggi dunque i dati sono venduti, scambiati, tra operatori economici e tra loro e governi. L’utilizzo del cloud, inaugurato appunto per la gestione degli account mail proprio da Google con Gmail, rende setacciabili e codificabili tutte le informazioni immesse sul web da ogni singole fruitore. Nel sistema di utilizzo è bene ricordare che la commercializzazione dei dati mira a monetizzarne il valore attraverso la loro circolazione, oppure attraverso la loro analisi in house volta a ideare nuovi e migliori prodotti e strategie di marketing, come avviene in generale nel caso delle imprese data driven. Si tratta di fatto di approcci differenti che spesso possono risultare complementari. Sappiamo che quando si parla di data driven innovation si indica lo sfruttamento di qualsiasi tipologia di dato all’interno dei processi d’innovazione messi in pratica dalle aziende per la produzione di valore tramite la creazione di nuovi beni o di servizi, l’affinamento di strategie di marketing o l’adozione di decisioni atte a pianificare utilizzando i dati in possesso dell’impresa.

 

Abbiamo però, come è noto, anche la commercializzazione dei dati che produce monetizzazione: possono essere commercializzati dati non elaborati, dati meno grezzi e dati già elaborati. Molte imprese operano nel settore dei dati, ad esempio, producendo applicazioni che rendono più facilmente leggibili e dunque fruibili i big data per l’utilizzatore o che provvedono alla raccolta, all’aggregazione e alla rideterminazione dei big data, magari incentrati su un tema specifico di settore e dunque fruibili per un utilizzo specifico. Ma sono le piattaforme digitali a possedere un enorme quantità di dati: queste operano su un mercato le cui alte barriere di accesso consentono concentrazioni ed esercizio di monopoli di fatto.

Ormai dovrebbe esserci consapevolezza comune che esistono grandi piattaforme digitali come i cosiddetti Gafam Usa (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft) che si comportano da veri e propri Stati, hanno bilanci con cifre equiparabili ai livelli dei Pil nazionali, e da tempo si preparano per battere moneta digitale avendo potuto agire per lungo tempo senza alcuna regolamentazione. Di fatto all’inizio nessuno era davvero consapevole dei meccanismi di estrazione e sfruttamento del valore poste in essere da queste piattaforme; i servizi offerti, solo apparentemente gratis, erano per tutti un modo di soddisfare bisogni. Potremmo dire che, nella loro espansione, questi nuovi capitalisti non hanno incontrato grande resistenza. Le capitalizzazioni, che in Occidente ( e non solo) sono svolte dalle sole piattaforme commerciali, permettono la formazione di un plusvalore a loro vantaggio e la loro indiscussa abilità è stata accumulare, strutturare ed utilizzare a fini di profilazione le enormi quantità di dati raccolti nel corso delle varie attività.

Questo evidenzia la necessità di politiche antitrust, sia come strumento di tutela del mercato e dei consumatori, ma anche della democrazia e delle libertà civili. Di pari passo alle preoccupazioni di carattere economico e di mercato, vi sono infatti quelle di carattere politico, come ha dimostrato per primo il caso Cambridge Analytica e come, da allora, segnalano compiutamente in molti analisti. È in discussione la qualità e la veridicità dell’informazione, il rispetto delle diversità culturali, la diffusione delle opinioni su temi economici e politici che confermano bias cognitivi e polarizzando spesso le opinioni senza un vero spazio di ragionamento e di critica. Più di 60 anni fa un libro che fece storia provò a raccontare come le aziende riuscissero a persuadere, in modo occulto, milioni di consumatori a comprare prodotti forse inutili, persino antieconomici, sfruttando la propensione all’immortalità, alla vanità, alla nostalgia, agendo con una nuova modalità di marketing, il cosiddetto neuro-marketing. Quei persuasori sono oggi forse meno occulti ma non smettono di perfezionare le proprie tecniche. E, forniti di nuovi strumenti, hanno scovato una ricchissima miniera che consente loro di guadagnare in modo esponenziale sfruttando ogni singolo aspetto della vita di ciascuno.

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In generale, dunque, anche considerando il tema sociale che attiene la concentrazione di dati e canali di comunicazione in mano a pochi soggetti, non è più un mistero per nessuno che i dati abbiano un valore economico, tangibile, che siano beni di scambio, che da essi si estragga valore. L’utilizzo di un approccio basato sui di essi comporta una crescita della produttività delle imprese, una riduzione dei costi amministrativi e, in generale, dei ritorni importanti in termini di economie di scala e di scopo. Un esempio rispetto all’utilizzo di dati da parte di aziende di cui, con larga probabilità, siamo clienti è dato dagli algoritmi utilizzati da Netflix per lo studio delle preferenze sui film e sulle serie televisive dei propri utenti, che agevola anche gli investimenti dell’azienda nella realizzazione di nuovi prodotti. Il modello Amazon è parimenti performante nel predire comportamenti ed attitudini di acquisto. Ma esistono dati di diversa natura, alcuni dei quali di strategica importanza se utilizzati a fini di pubblico interesse.

Nella fase di grave emergenza sanitaria in cui ci siamo trovati ormai due anni fa, l’utilizzo di dati sanitari strutturati e leggibili, se resi pubblicamente disponibili, avrebbe costituito elemento determinante per il contrasto alla pandemia. In tal senso richiamiamo l’applicazione lanciata all’inizio della pandemia da Google Maps che mostrava informazioni critiche sul Covid 19 relative ad aree specifiche del territorio, quando contestualmente non si riusciva ad attivare uno strumento pubblico nazionale capace di avere ed utilizzare le medesime informazioni. Partendo dall’assunto che, anche alla luce del Regolamento europeo sulla privacy (GDPR), il trattamento dei dati personali come quelli sanitari, cosiddetti “particolari”, può essere considerato legittimo per le sole finalità connesse alla salute e alla ricerca nel pubblico interesse e per finalità connesse alla supervisione del Sistema sanitario nazionale, si sarebbe potuta imporre la disponibilità in capo all’autorità sanitaria pubblica dei dati raccolti dalle piattaforme private e utili ai fini delle azioni di contenimento della pandemia. Con questa stessa logica che sottende la necessità di privilegiare l’interesse collettivo, da tempo la Cgil chiede che i dati di interesse pubblico siano resi leggibili e che gli operatori digitali operanti sul territorio nazionale che raccolgono dati ritenuti utili, non solo ai fini di prevenzione e cura, debbono renderli disponibili prioritariamente alle autorità pubbliche a livello territoriale ed a livello nazionale. Una scelta non di monetizzazione ma di valorizzazione del patrimonio informativo.

In generale i dati dovrebbero essere considerati alla stregua di beni comuni e bisognerebbe avere, sulla scorta delle migliori esperienze europee, piattaforme pubbliche generate dai cittadini con una governance parimenti pubblica della raccolta dei dati e delle informazioni. I dati di pubblica utilità potrebbero essere ricoverati presso data center pubblici, o meglio ancora in un cloud ad accesso e controllo pubblico, trattati secondo una apposita definizione di utilizzo redatta sentito il parere del Garante della privacy, e resi visibili ai cittadini. Trasparenza, fruibilità, conoscenza diffusa: elementi che garantiscano una gestione non privatistica dei dati. Dunque, fermo restando l’utilizzo lecito della innovazione legata all’utilizzo dei dati, vi è sempre la necessità di contemperare l’interesse pubblico a quello privato, di tutelare il diritto soggettivo e collettivo di fronte all’interesse del capitale.

In Europa, la Commissione europea ha inflitto in rapida successione, negli ultimi anni, sanzioni miliardarie a Google per diversi abusi di posizione dominante; e alcune autorità nazionali, tra cui quella italiana, hanno in corso istruttorie sulle imprese Big tech. Dinanzi al loro strapotere, alla loro voracità nell’acquisire ogni nuova start-up che possa limitare la loro sfera d’azione, e consapevole della centralità democratica dei temi attinenti l’utilizzo dei dati e la concentrazione del mercato, l’Europa ha predisposto una serie di atti finalizzati a regolamentare lo spazio continentale. Ciò in linea con quanto già fatto con il regolamento sul trattamento dei dati ormai (GDPR) in vigore in Italia dal 2018. In generale si prova ad arginare lo spazio di manovra delle Big tech sul territorio europeo ma anche a dare una finalità di vantaggio comune nella condivisione e utilizzo dei dati nello spazio europeo. Il data governance act va in questa direzione.

Parimenti si prova a regolamentare e arginare i rischi delle applicazioni tecnologiche potenzialmente più pericolose, come l’IA, con un approccio regolamentare basato sul rischio. È necessario definire e utilizzare un approccio etico all’innovazione, e parimenti un utilizzo dei dati non esclusivo, che garantisca il rispetto dei diritti dei singoli e una tutela massiva dei diritti e delle libertà e l’Europa, per provare a superare alcuni dei suoi ritardi regolamentando il mercato in modo innovativo rispetto al resto del mondo, agevolando l’accesso ai dati aperto e ampio e dunque mettendo a disposizione, con una impostazione antropocentrica, una delle risorse più importante del mondo. Non può infatti essere solo l’accumulazione di profitto a regolamentare i nuovi mercati.

Se la regolamentazione europea va in questo senso, parimenti è necessaria la valutazione di come il potere dei dati incida in ambito lavorativo, di come cambi il lavoro in rapporto all’uso di dati e informazioni, quale debba essere il ruolo delle rappresentanze di lavoratrici e lavoratori nella contrattazione delle implementazioni tecnologie che da quei dati estraggono valore, quale l’accesso ai dati, la tipologia dei dati condivisi (in termini di qualità, accuratezza, rilevanza, usabilità), i livelli di sicurezza nella conservazione dei dati e la durata di tale conservazione e le procedure riconosciute a lavoratrici e lavoratori per esercitare i propri diritti. A ciò si aggiunge la necessità che interi settori dell’economia non siano lasciati al libero mercato, ma mantenuti sotto il controllo dello Stato; agli Stati spettano gli investimenti in innovazione tecnologica che, lasciati ai privati, prefigurano un sistema monopolistico in settori strategici potenzialmente esiziali per l’economia e, per quanto detto, per la democrazia stessa. Dobbiamo accogliere e promuovere le proposte che chiedono di rendere aperto l’accesso ai dati, alle informazioni e alla conoscenza, che chiedono di restituire i dati alle comunità, promuovendo esperienze di “altruismo dei dati" se vogliamo contrastare le asimmetrie di potere ed eliminare l’indebita posizione di dominio digitale basata sulle informazioni. Insomma, anche nella quarta rivoluzione, produttiva e sociale, il ruolo del sindacato rimane quello di correggere le asimmetrie tra forza lavoro e capitale, intervenire affinché anche nelle dinamiche sociali ed economiche non si producano diseguaglianze, sperequazioni, polarizzazioni e discriminazioni. Per restituire alle persone il valore che esse stesse producono.