L’Italia  ha visto, nel corso degli ultimi anni, crescere le disuguaglianze e i divari, comprimere i salari e precarizzare il lavoro. Non si è pensato a costruire politiche di sviluppo che consentissero di affrontare le sfide globali e si sono, di contro, impoveriti il welfare e i sistemi della conoscenza.

Il Pnrr (il Piano nazionale di ripresa e resilienza) dovrebbe rispondere a questo quadro in maniera decisa ed esplicita, affrontando contestualmente tutti i temi legati all’innovazione tecnologica sempre più pervasiva e diffusa e progettandone l’implementazione come volano di un nuovo e più equo sviluppo.

Il tema “digitalizzazione” è di fatto trasversale alle missioni previste dal Pnrr, che a oggi sono riconfermate, almeno nella declaratoria, dal nuovo governo in carica. Quando si parla di piani di riforma, le parole chiave che accompagnano i processi di efficientamento e investimento attengono alla transizione ecologica, e devono consentire di raggiungere nei tempi previsti gli obiettivi Ue per la neutralità climatica e il digitale.

Non sono parole vuote ma concetti che sottendono una direzione chiara la quale, per essere raggiunta, ha bisogno di azioni basate su una progettualità complessiva che deve vedere il riconoscimento dello stato attuale, dei ritardi del Paese, dei bisogni cui dare risposta efficace e, contestualmente, deve prevedere la partecipazione attiva delle lavoratrici e dei lavoratori e l’utilizzo dei loro saperi professionali e delle loro competenze.

Ma è bene sottolineare quanto stiamo ormai dicendo da tempo, e cioè che la trasformazione e l’efficientamento del sistema produttivo e del sistema pubblico nazionale non si realizzano con il semplice utilizzo del termine "digitalizzazione". Come abbiamo già scritto, nel Pnrr presentato dal precedente governo manca ancora un chiaro e definito programma di politica industriale, che abbia  al centro i settori strategici per il Paese, i progetti specifici previsti per ciascuno di essi e gli interventi di natura pubblica per rafforzarne la capacità competitiva.

Da circa vent’anni mancano al Paese una visione e una strategia chiara di politica industriale. Si è tentato di supplire con misure sporadiche, prevalentemente connotate come incentivi o aiuti, e non sistemiche. Questa frammentazione e la mancanza di uno sguardo lungo hanno impedito di fatto uno sviluppo del nostro sistema industriale, anche per questo è urgente che si avvii un confronto su tali questioni.

La politica industriale, del resto, non è semplicemente decidere le allocazioni delle risorse ma ha un necessario corollario composto dalle regole del mercato del lavoro, dagli investimenti in ricerca e sviluppo, dal sistema di istruzione e di formazione, dall’efficienza del sistema finanziario.

Per fare un raffronto basti considerare che, dal punto di vista degli investimenti necessari, alcuni paesi europei, tra cui ad esempio la Germania, da anni investono in maniera sistematica in programmi per la competitività industriale e il rafforzamento della ricerca applicata e, di recente, in piani per l’alta tecnologia, considerando la sinergia tra pubblico e privato e l’investimento in ricerca (cui ad esempio proprio in Germania è destinato già oggi il 3% del Pil) come fattori determinanti per la crescita anche del sistema pubblico delle università e della ricerca.

In Italia i dati sono invece decisamente preoccupanti. L’Italia investe infatti l’1,3% del Pil in ricerca e innovazione e ha contestualmente un deciso ritardo nella diffusione dell’educazione terziaria tanto quanto nella quantità di risorse investite nell’istruzione professionale. A questo dobbiamo aggiungere la necessità impellente di un piano infrastrutturale che sia in grado di eliminare definitivamente le sperequazioni territoriali, garantendo una rete di telecomunicazioni unica, neutrale, adeguata a garantire copertura universale e a disposizione di tutti i service provider, ed evitando il rischio di una duplicazione di investimenti. Le reti di tlc infatti costituiranno sempre più una infrastruttura determinante per la competitività ma anche per la crescita complessiva del Paese e per la coesione sociale.


Ultimo ma non meno importante, l’obbligo di riorganizzazione e riformare la pubblica amministrazione. Il tema della pubblica amministrazione è da considerarsi nodale. La maggiore efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione sono infatti elementi indispensabili per aumentare la competitività del Paese ma anche, a nostro avviso, per consentire l’esercizio dei diritti di cittadinanza. Di sicuro, qualsiasi progetto di riforma, a partire proprio da quello della macchina pubblica, andrebbe preceduto da una mappatura fedele dell’attuale, disomogenea articolazione territoriale della stessa pubblica amministrazione, evidenziandone criticità ma anche esperienze positive. Quello che diciamo da tempo è infatti che la digitalizzazione non può essere il risultato bensì lo strumento per raggiungere alcuni obiettivi citati dal Piano, obiettivi che andrebbero esplicitati in maniera più chiara e definita.

Oggi abbiamo circa 22mila enti pubblici con ben 11mila data center distribuiti su tutta la penisola. Non si comprende come si pensi di superare la frammentazione e la disomogeneità delle infrastrutture digitali e dei servizi della pubblica amministrazione e di limitare il rischio di attacchi informatici, riducendo gli attuali 7,5 miliardi di spesa per la manutenzione, se molti dei progetti inseriti nel Piano relativo alla trasformazione digitale della pubblica amministrazione sono già, in larga misura, contenuti in atti precedenti al presente progetto.

Capire cosa abbia impedito di dare gambe a quei progetti sarebbe necessario e indispensabile per evitare ritardi e nuovi fallimenti. Senza la ricognizione dello stato attuale di implementazione digitale e la proposizione dei risultati attesi, che siano chiaramente definiti anche nella loro temporalità, sembra infatti difficile pensare che si riuscirà dove fino a oggi si è fallito.

Mancano in generale nel Piano indicatori qualitativi e quantitativi di riferimento. Per quanto attiene alla riorganizzazione della pubblica amministrazione, non leggiamo la definizione chiara di interventi di filiera che superino la attuale strutturazione a silos, mentre risulta inspiegabile e grave l’assenza di considerazione dei rischi legati alla gestione dei dati e del riferimento esplicito alla loro governance pubblica e trasparente.

I dati sono il carburante delle nuove tecnologie, materia prima necessaria per l’efficientamento dei servizi, e dunque  devono essere trattati alla stregua di “beni comuni”, classificati in termini di criticità, protetti e garantiti. Per far questo servono regole e requisiti di protezione, trasparenza e indipendenza delle strutture di gestione molto stringenti, cosa che  peraltro è richiesta anche dal Garante della privacy.

Quanto più si utilizzeranno relazioni digitali con la pubblica amministrazione, tanto più questo tema diverrà centrale, e dunque la progettazione va fatta a monte e in maniera rispondente a una necessaria governance pubblica. 

In tutto questo il lavoro è centrale nell’ottica di sviluppo di un paese, e questa centralità va riconosciuta. La quantità di denaro che verrà erogata dovrà quindi finanziare progetti coerenti che siano capaci di rilanciare l’economia, ristrutturare i servizi pubblici, sanitari, di assistenza, a vantaggio dei cittadini e delle imprese e modernizzare il Paese, rendendolo competitivo anche in termini di saperi e competenze, coinvolgendo lavoratrici e lavoratori nella progettazione dei percorsi riorganizzativi.

Solo così, con uno sguardo che sappia superare la logica del contingente e guardare a una progettazione insieme economica e sociale, si potrà correggere sperequazioni e diseguaglianze, consentire a tutte e tutti maggiore sicurezza sociale, ridare dignità e centralità  al lavoro, riconoscere il diritto ad accedere alla formazione continua necessaria, ad acquisire le competenze indispensabili a utilizzare in modo critico le nuove tecnologie, a veder rilevati e soddisfatti i propri bisogni.

Bisogna, nel progettare la ripresa del Paese, ristabilire un ordine di priorità che abbia al centro le persone nelle loro molteplici dimensioni di vita, operando scelte politiche chiare alla cui realizzazione le implementazioni tecnologiche offriranno supporto.